Sulla violazione della legge delega che attua una direttiva dell’UE
Sentenza n. 210/2015 – giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale
Deposito del 29/10/2015 – Pubblicazione in G. U. 04/11/2015 n. 44
Motivo della segnalazione
Con ordinanza del 17 febbraio 2014, il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 38, comma 5, del decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177 (Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici), il quale stabilisce − per le emittenti televisive a pagamento − limiti orari alla trasmissione di spot pubblicitari più restrittivi di quelli previsti per le emittenti cosiddette “in chiaro”. Ad avviso del giudice rimettente, la previsione si porrebbe in contrasto, in primo luogo, con l’art. 76 Cost., poiché tale misura sarebbe del tutto innovativa e non giustificata da alcuna previsione della legge delega, né da una ratio implicita della direttiva cui la disposizione dovrebbe dare attuazione. Viene, inoltre, denunciato il contrasto con l’art. 3 Cost., per l’intrinseca irrazionalità della disposizione, che introdurrebbe un’ingiustificata differenziazione tra i limiti orari di affollamento pubblicitario applicabili alle emittenti televisive a pagamento e quelli applicabili alle emittenti in chiaro, nonostante l’unicità del mercato di riferimento; ed infine, con l’art. 41 Cost., poiché la disposizione inciderebbe sulla libertà di iniziativa economica delle emittenti televisive a pagamento, in difetto di una chiara ed inequivoca finalità sociale che giustifichi l’intervento normativo in questione.
La decisione appare meritevole di segnalazione per i principi affermati dalla Corte costituzionale con riferimento alla supposta violazione dell’art. 76 Cost. A tal proposito la Corte, nel richiamare la sua giurisprudenza costante, ribadisce che il contenuto della delega non può essere individuato senza tenere conto del sistema normativo nel quale la stessa si inserisce, poiché soltanto l’identificazione della sua ratio consente di verificare, in sede di controllo, se la norma delegata sia con essa coerente (ex plurimis, sentenze n. 134 del 2013, n. 272 del 2012, n. 230 del 2010, n. 98 del 2008, n. 163 del 2000).
Nel merito, la disposizione censurata del d.lgs. 177/2005 è stata introdotta dall’art. 12 del d.lgs. n. 44 del 2010, adottato in esecuzione della delega conferita dalla legge n. 88 del 2009. Con essa, il Governo è stato delegato ad adottare i decreti legislativi recanti le norme occorrenti per dare attuazione, tra le altre, alla direttiva 11 dicembre 2007, n. 2007/65/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio che modifica la direttiva 89/552/CEE del Consiglio relativa al coordinamento di determinate disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri concernenti l’esercizio delle attività televisive). A tal proposito, la Corte evidenzia come il legislatore delegante abbia conferito al Governo uno spazio di intervento particolarmente ampio, autorizzando l’adozione delle modifiche ritenute «opportune» (art. 26) e non solo «occorrenti» (art. 2, comma 1, lettera b), al quale si aggiungono, nel caso di delega per l’attuazione di una direttiva dell’UE anche i principi che quest’ultima esprime, i quali assumono assieme a quelli dettati dal legislatore nazionale valore di parametro interposto, potendo autonomamente giustificare l’intervento del legislatore delegato (sentenze n. 134 del 2013 e n. 32 del 2005).
Nel caso di specie, all’interno dei limiti tracciati dal diritto dell’Unione europea, risultano espressamente consentite disposizioni nazionali più rigorose in materia di pubblicità televisiva e di questa possibilità si è avvalso il legislatore delegato, nello stabilire limiti di affollamento pubblicitario differenziati per le emittenti a pagamento. Per cui, a parere della Corte, non è ravvisabile alcuna violazione dell’art. 76 Cost. per eccesso di delega.
Nell’ambito delle sue argomentazioni la Corte richiama espressamente anche la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea sulla conformità al diritto europeo della nuova modulazione − introdotta dalla disposizione censurata − dei limiti di affollamento pubblicitario televisivo. In particolare, con la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea 18 luglio 2013, in causa C-234/12, resa nel caso in esame e avente natura vincolante nei confronti del giudice rimettente, l’obiettivo perseguito dalle direttive in materia di fornitura di servizi di media audiovisivi viene espressamente individuato nella tutela equilibrata degli interessi finanziari delle emittenti televisive e degli inserzionisti, da un lato, e degli interessi degli aventi diritto − autori e realizzatori − e della categoria di consumatori, ossia i telespettatori, dall’altro. Al riguardo, la ricerca di tale equilibrio deve tenere conto della diversità degli interessi finanziari delle emittenti televisive a pagamento rispetto a quelli delle emittenti televisive in chiaro. Infatti, mentre le prime ricavano introiti dagli abbonamenti sottoscritti dai telespettatori, le seconde non beneficiano di una siffatta fonte di finanziamento diretto e devono finanziarsi con le entrate della pubblicità televisiva o mediante altre fonti. Per tale ragione le emittenti televisive a pagamento si pongono, pertanto, in una situazione oggettivamente diversa da quella delle emittenti in chiaro, quanto all’incidenza economica dei limiti all’affollamento pubblicitario sulle modalità di finanziamento delle stesse emittenti. È stata, quindi, esclusa la violazione del principio della parità di trattamento nella previsione, da parte del legislatore nazionale, di limiti orari di affollamento pubblicitario, differenziati in funzione della tipologia di emittenti (paragrafi 21 e 23 della sentenza della Corte di giustizia 18 luglio 2013, in causa C-234/12).
Per tali ragioni l’art. 38 del d.lgs. n. 177 del 2005 − nel modulare i limiti di affollamento pubblicitario in funzione delle oggettive diversità degli operatori – risulta coerente con la ratio della direttiva (come espressamente individuata dalla Corte di giustizia), in quanto volta a realizzare la equilibrata tutela degli interessi delle emittenti televisive, da un lato, e di quelli dei consumatori - telespettatori, dall’altro. La disposizione censurata rientra, pertanto, nell’area di operatività della direttiva dell’UE, come definita dalla Corte di giustizia con la sentenza 18 luglio 2013, e rientra, altresì, nel perimetro tracciato dal legislatore delegante.
Per completezza si evidenzia che del pari non fondata, è ritenuta dalla Corte anche la questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento all’art. 41 Cost., dal momento che i principi e i criteri direttivi delle disposizioni relative all’affollamento pubblicitario televisivo mirano a realizzare la protezione dei consumatori, ed in particolare dei telespettatori, oltre che la tutela della concorrenza e del pluralismo televisivo. In tali obiettivi si ravvisa, a parere della Corte, quella «finalità sociale» che appare in sé idonea a giustificare la misura normativa in esame.
Inammissibile è invece la censura relativa all’art. 3 Cost. poichè l’intervento correttivo invocato non varrebbe a ricondurre ad omogeneità le situazioni poste a raffronto e sarebbe, quindi, inidoneo a garantire la realizzazione del risultato avuto di mira dal rimettente, conseguibile non per decisione della Corte, ma attraverso la rimodulazione legislativa dei limiti di affollamento. Ciò è motivo di inammissibilità della questione (sentenze n. 163 e n. 30 del 2014; ordinanze n. 200 del 2000; n. 259 del 1998).