Sono cinque le pronunce della Corte costituzionale che hanno riguardato la Regione Siciliana, emesse nei mesi gennaio – marzo 2016, e segnatamente le sentenze n. 3, n. 29, n. 31, n. 40 e n. 45; le prime quattro decisioni sono state pronunciate nell’ambito di giudizi di legittimità costituzionale in via principale, proposti dalla Regione contro norme statali, l’ultima, emessa nell’ambito di un giudizio in via incidentale, sollevato dal Tribunale di Gela, in funzione di giudice del lavoro, ha riguardato, invece, una norma regionale.
Con la sentenza n. 3 del 2016, la Corte costituzionale ha dichiarato in parte inammissibile ed in parte non fondata la questione di legittimità costituzionale riguardante l’art 1, commi 508 e 590, della legge 27 dicembre 2013, n. 147 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2014).
Il citato art. 1, al comma 508, destina le nuove e maggiori entrate derivanti dal decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 e dal decreto-legge 6 dicembre n. 201, alle casse erariali, per un periodo di cinque anni, a decorrere dal 1° Gennaio 2014, per essere interamente utilizzate per la copertura degli oneri per il servizio del debito pubblico, allo scopo di garantirne la riduzione nella misura e nei tempi stabiliti dal c.d. Fiscal Compact (Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione economica e monetaria).
A detta della Regione, dal combinato disposto dei commi 508 e 590, invece, risulterebbe prorogato il contributo di solidarietà di cui all’art. 2, comma 2, del decreto-legge 13 agosto 2011 n. 138, fino al 31 dicembre 2016, e riservato all’Erario il gettito derivante dalla sua riscossione.
Secondo la ricorrente, la previsione di cui al richiamato comma 508, insieme a quella risultante dal combinato con il comma 590, violerebbero l’art. 36 dello statuto siciliano, il quale dispone che al fabbisogno finanziario della Regione si provvede con i redditi patrimoniali della Regione e a mezzo di tributi, deliberati dalla medesima, e che destina allo Stato esclusivamente le imposte di produzione e le entrate dei tabacchi e del lotto, oltre che l’art. 2, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 26 luglio 1965, n. 1074 (Norme di attuazione dello Statuto della Regione siciliana in materia finanziaria) – adottato in ragione della previsione normativa di cui all’art. 43 dello statuto siciliano -, che esclude la spettanza alla Regione delle sole entrate tributarie che presentano i requisiti della novità e della adibizione al soddisfacimento di “particolari finalità contingenti o continuative dello Stato”, purché queste risultino specificate nelle leggi che le prevedono.
Nel ragionamento seguito dalla Regione, infatti, le norme impugnate avrebbero la funzione di riservare alle casse erariali entrate che, in quanto previste da decreti-legge del 2011, non presenterebbero più il requisito di novità, ed inoltre difetterebbe la puntuale specificazione delle ragioni della destinazione statale del gettito.
Sul punto, la ricorrente ha evidenziato che tale destinazione ‹‹è volta ad assicurare un «ulteriore» concorso delle autonomie speciali alla finanza pubblica, finalità che non configura la specifica destinazione, ossia l'altra condizione richiesta dall'art. 2 delle norma di attuazione dello Statuto››.
La Regione ha sostenuto, poi, che la sottrazione di risorse necessarie per l’espletamento delle funzioni assegnatele, in carenza di qualsiasi forma di raccordo, si sarebbe posta in contrasto non solo con gli artt. 81, 97 e 119 della Costituzione, ma anche con l’art. 20 dello statuto siciliano, secondo il quale la Regione esercita le funzioni amministrative nelle materie per le quali ha potestà legislativa esclusiva e concorrente.
Relativamente all’art. 1, comma 508, della legge di stabilità nazionale, la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione, rilevando che la Regione aveva omesso di precisare quali fossero le entrate tributarie illegittimamente devolute alle casse erariali, con ciò rendendo impossibile qualsiasi verifica in merito alla sussistenza dei requisiti per l’attribuzione allo Stato del relativo gettito.
Come si è detto, infatti, la norma citata fa riferimento alle maggiori entrate derivanti dall’applicazione di due decreti-legge del 2011; la Regione avrebbe dovuto, a detta della Consulta, indicare puntualmente i tributi per i quali la riserva erariale risultava illegittima, in modo da consentire per essi il controllo nel merito.
Si legge in sentenza: «La Regione omette di precisare quali siano le specifiche entrate tributarie ad essa devolute ai sensi delle disposizioni statutarie e di attuazione ed, a suo dire, indebitamente sottratte. In tal modo, la ricorrente non consente di verificare, per ciascuna delle entrate derivanti dalle numerose misure disposte dai due decreti-legge del 2011, la legittimità della riserva erariale. La lacunosa formulazione della questione di legittimità costituzionale «si risolve, perciò, nella carente individuazione delle “disposizioni ritenute viziate da illegittimità” e, quindi, nella mancanza di uno degli elementi richiesti dal combinato disposto degli artt. 34 e 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, per la rituale proposizione del ricorso di legittimità costituzionale in via principale» (sentenza n. 241 del 2012). Di qui l’inammissibilità della questione per indeterminatezza dell’oggetto››.
Non fondata è, invece, stata dichiarata la questione relativa alla lesione, da parte del combinato disposto dei commi 508 e 590, dell’art. 36 dello Statuto, in relazione al soprarichiamato art. 2 del D.P.R. n. 1074 del 1965; infondata e non inammissibile, proprio perché, nel caso, la Regione aveva puntualmente indicato il gettito illegittimamente devoluto all’Erario, quello derivante dalla riscossione del contributo di solidarietà di cui all’art. 2, comma 2, del d.l. n. 138 del 2011.
La Corte costituzionale ha, però, riconosciuto la sussistenza di tutti i requisiti necessari per la devoluzione allo Stato di tale entrata e, segnatamente, ha rilevato che al citato contributo di solidarietà dovesse essere riconosciuta natura tributaria, in quanto questo «si risolve in un prelievo corrispondente ad una aliquota aggiuntiva rispetto al reddito imponibile dell’IRPEF e, quindi, in una temporanea sovrimposta di tale tributo», che esso integrasse il requisito della novità, essendo stato originariamente previsto solo per il triennio 2011-2013 e, con la norma impugnata, prorogato, e, infine, che fosse destinato alla realizzazione di una finalità contingente dello Stato – nel caso, il raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica, secondo tempi e modalità previste dal Fiscal Compact.
Inammissibile è, infine, stata ritenuta l’ultima questione prospettata.
La Corte ha evidenziato che ‹‹la ricorrente si è limitata a lamentare la violazione dell’art. 20 dello statuto, in quanto le disposizioni sottrarrebbero alla Regione, senza previsione di raccordo alcuno, risorse che vengono meno per l’esercizio delle sue funzioni, e, sulla scorta della legge 24 dicembre 2012, n. 243, il contrasto con l’art. 97, primo comma, Cost., per l’aspetto della garanzia degli equilibri di bilancio delle pubbliche amministrazioni, nonché con gli artt. 81, sesto comma, e 119 Cost.››, senza null’altro aggiungere.
La genericità e l’assertività delle censure, resa evidente dalla assenza di spiegazioni in merito alle ragioni per le quali le disposizioni citate avrebbero dovuto ritenersi violate – a detta del giudice delle leggi, che richiama consolidata giurisprudenza costituzionale, secondo la quale i termini delle questioni di legittimità costituzionale debbono essere ben identificati, individuando, tra l’altro, le ragioni dei dubbi di legittimità costituzionale–, non ha potuto che implicare l’inammissibilità del ricorso in parte qua.
Con la sentenza n. 29 del 2016, la Corte costituzionale ha dichiarato in parte non fondata ed in parte inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 28 del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 11 agosto 2014, n. 114.
La Regione Siciliana sosteneva che il legislatore nazionale, prevedendo che, nelle more del riordino delle Camere di Commercio, fosse ridotto il contributo di cui all’articolo 18 della legge 29 dicembre 1993, n. 580, e successive modificazioni, avesse disciplinato una materia – “ordinamento degli enti regionali”, quali sono le Camere di Commercio siciliane – che, secondo quanto disposto dall’art. 14 dello statuto siciliano, è riservata alla potestà legislativa esclusiva regionale.
Assumeva, altresì, che la disposizione impugnata avesse violato l’art. 3 della Costituzione ed il principio di ragionevolezza, in quanto questa, nel dettare la decurtazione del suddetto contributo, prescindeva del tutto dal considerare le differenze del fabbisogno delle singole Camere di Commercio, in relazione ai servizi da espletare ed al numero di aziende iscritte presso ciascun ente.
Infine, prospettava la lesione dei princìpi di cui agli artt. 81, 97 e 119 della Costituzione, oltre che di cui all’art. 36 dello statuto siciliano.
A detta della ricorrente, la disposizione, in assenza di qualsiasi forma di raccordo con le Regioni, riduceva gravemente le disponibilità finanziarie delle Camere di Commercio, senza considerare che a tale riduzione avrebbe, poi, dovuto far fronte la finanza regionale.
Secondo la Regione, infatti, la norma impugnata avrebbe provocato una decurtazione delle entrate nelle casse degli enti così cospicua, da paralizzare l’attività di questi, impedendo il loro corretto funzionamento e l’espletamento delle funzioni agli stessi assegnate.
Il giudice delle leggi ha rilevato, innanzi tutto, l’inammissibilità delle censure riguardanti gli artt. 3, 81 e 97 Cost., sostenendo che: ‹‹la Regione – nell’evocare la lesione di parametri costituzionali estranei rispetto a quelli che regolano il riparto di competenze tra Stato e Regioni – non motiva in alcun modo in ordine alla configurabilità di tale requisito. In particolare, relativamente agli artt. 81 e 97 Cost., la ricorrente (in ragione del, non altrimenti dimostrato, assunto di una loro generica lesione) si limita a richiamarne il contenuto precettivo e di principio; mentre, quanto all’art. 3 Cost., viene dedotta la irragionevolezza della riduzione ope legis del contributo annuale, in quanto operata a prescindere dalle realtà economiche dei diversi territori e dalla peculiarità dell’assetto competenziale regionale, nonché dal fabbisogno correlato ai (non meglio identificati) servizi da espletare, in assenza sia di eventuale coeva riduzione delle competenze e delle funzioni di detti enti che di misure compensative a loro favore. Argomentando in tal modo, la ricorrente contravviene al consolidato principio affermato da questa Corte, secondo cui, nell’àmbito di un giudizio in via principale, le questioni di legittimità costituzionale prospettate da una Regione, in ordine a parametri diversi da quelli riguardanti il riparto delle competenze legislative tra lo Stato e le Regioni, sono ammissibili soltanto se vi sia ridondanza delle asserite violazioni su tale riparto e il soggetto ricorrente abbia indicato le specifiche competenze ritenute lese e le ragioni della lamentata lesione››.
Ed, in effetti, nel ricorso introduttivo del giudizio dinanzi la Corte costituzionale, sul punto, si legge unicamente: ‹‹l'art. 28 in parola per la carenza della necessaria attestazione della copertura finanziaria contrasta altresì con l'art. 81 della Costituzione e ancora viola i principi di corretto andamento della p.a., di cui all'art. 97 Cost. e di garanzia delle autonomie funzionali locali sanciti dall'art. 119 Cost., in relazione, tra l'altro, alla competenza esclusiva in materia ex art. 14, lettera o), Statuto regionale)››.
La Consulta ha, poi, evidenziato che nessuna delle altre disposizioni, costituzionali o statutarie, invocate potesse ritenersi violata e che, nel merito, per le residue censure, il ricorso doveva ritenersi infondato.
Nello specifico, in relazione all’asserita violazione dell’art. 14 dello statuto regionale, ha rilevato che la disposizione impugnata non disciplina il funzionamento delle Camere di commercio, concernendo viceversa la misura del diritto camerale e quindi essendo ascrivibile alla diversa materia del “sistema tributario”, indicata dalla lettera e) del secondo comma dell’art. 117 Cost., di competenza esclusiva dello Stato.
Per quanto attiene invece al pregiudizio derivato alla funzionalità dei suddetti enti, oltre che alle refluenze della norma impugnata sulla finanza regionale, e, quindi, in relazione alla prospettata lesione dell’art. 36 dello statuto siciliano, la Consulta ha sostenuto che, il legislatore statale può sempre modificare, diminuire o persino sopprimere, tributi istituiti e regolati da una legge dello Stato, anche quando il relativo gettito sia destinato, in tutto o in parte, ad un ente territoriale, conservando questi sempre la natura di tributi erariali, senza che ciò comporti una violazione dell’autonomia finanziaria regionale, non assicurando, lo statuto di autonomia, alla Regione siciliana, una garanzia di “invarianza” quantitativa di entrate.
Il limite che si pone al legislatore è, però, ‹‹che la riduzione delle entrate non sia di entità tale da rendere impossibile lo svolgimento delle funzioni regionali, nell’ambito dei rapporti finanziari tra Stato e Regioni››.
A detta della Corte costituzionale, nello specifico caso in cui la Regione ritenga che la modifica di tributi, il cui gettito le è riservato, abbia comportato una decurtazione delle sua finanze, tale da impedire l’espletamento delle funzioni assegnatele, grava in capo ad essa l’onere di provare l’entità della riduzione tale da cagionare un pregiudizio alla sua funzionalità.
Proprio il superamento di detto limite, e quindi la sopravvenuta impossibilità per le Camere di Commercio siciliane di svolgere le funzioni loro attribuite, data la riduzione del contributo, non è stato provato – a detta della Corte costituzionale - dalla Regione Siciliana.
Con la sentenza n. 31 del 2016, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 7, commi 1 e 1-bis, del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66 (Misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 23 giugno 2014, n. 89, nella parte in cui si applica anche alla Regione siciliana.
Quest’ultima, con ricorso depositato il 28 agosto 2014, aveva evidenziato la lesione, a mezzo dell’impugnata disposizione, dell’art. 36 dello statuto siciliano, in relazione all’art. 2 del decreto del Presidente della Repubblica 26 luglio 1965, n. 1074 (Norme di attuazione dello Statuto della Regione siciliana in materia finanziaria), che come si è detto considera legittima la riserva erariale di entrate aventi natura tributaria solo ove queste presentino il requisito della novità e solo se la riserva risulti, nel testo di legge, puntualmente motivata, mediante la specificazione delle ragioni per le quali lo Stato destina alle proprie casse il suddetto gettito.
Sosteneva la Regione che la norma impugnata avesse destinato alla copertura degli oneri derivanti dal decreto-legge n. 66 del 2014, le maggiori entrate derivanti dalla lotta all’evasione fiscale, incassate nel 2013, rispetto a quelle ottenute nel 2012, secondo quanto stabilito dall’art. 2, comma 36, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138.
A detta della ricorrente, nel caso di specie, difetterebbero i requisiti previsti per la destinazione alle casse erariali di tali proventi e, segnatamente, non potrebbe parlarsi di nuove entrate, giacché quelle destinate alla copertura degli oneri derivanti dal decreto-legge costituirebbero solo il recupero di imposte non riscosse, in tutto o in parte, ed, in ogni caso, non sarebbe specificata la ragione per la quale il gettito dovrebbe essere riservato allo Stato, così come normativamente richiesto.
La Corte costituzionale, dichiarando la spettanza alla Sicilia delle somme in questione, e, quindi, la violazione della previsione normativa di cui all’art. 2, I comma, delle norme attuative dello statuto della Regione, ha, nei termini in cui si è detto, accolto la questione di incostituzionalità.
Più specificatamente, in sentenza si legge: ‹‹È bensì vero che gli impugnati commi 1 e 1-bis dell’art. 7 del d.l. n. 66 del 2014, non recano un esplicito riferimento all’attività di contrasto all’evasione fiscale posta in essere dall’agente della riscossione competente per la Sicilia; nondimeno, nessun dubbio può sussistere sul fatto che le somme recuperate dalla lotta all’evasione fiscale non costituiscono nuove entrate (sentenza n. 246 del 2015) e che tra esse rientrano anche quelle derivanti dall’attività svolta sul territorio siciliano dagli organismi competenti. […]Se dunque le censure della Regione siciliana non possono che riferirsi ad entrate ad essa spettanti, ne deriva che anche nel presente giudizio la clausola di cui all’art. 50-bis deve ritenersi inoperante; di conseguenza, «I commi impugnati […] nella parte in cui riguardano tutti i tributi riscossi nel territorio siciliano non nominativamente attribuiti all’Erario dallo statuto, violano direttamente i parametri evocati con conseguente loro illegittimità costituzionale» (sentenza n. 241 del 2012).››.
La Consulta, pertanto, ha evidenziato la carenza del requisito di novità del gettito destinato allo Stato, in ragione del fatto che i tributi per i quali, nel 2013, si erano registrate le nuovi e maggiori entrate, erano già stati previsti da norme statali ed assegnati alla Regione.
In difetto del requisito della novità delle entrate ed in ragione della conseguenziale riconosciuta violazione dell’art. 2 delle norme attuative dello statuto siciliano, la Corte ha ritenuto assorbiti e, quindi, di non dover entrare nel merito degli stessi, gli ulteriori motivi di censura prospettati dalla Regione.
Per ragioni di completezza, invece, deve dirsi che, nella citata sentenza, la Corte ha trattato congiuntamente le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalle Province autonome di Trento e di Bolzano, che riguardavano le medesime norme impugnate dalla Regione Siciliana, e con le quali veniva in vario modo asserita l’illegittimità della riserva erariale delle suddette maggiori entrate.
L’intervenuto accordo tra lo Stato e dette Province, in materia di finanza pubblica, insieme alla successiva rinuncia al ricorso da parte di queste ultime, hanno imposto alla Corte, però, in questo caso, di concludere con la dichiarazione di estinzione del processo.
Con la sentenza n. 40 del 2016, la Corte costituzionale ha dichiarato in parte inammissibile ed in parte non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 46, commi 1, 2 e 3, e 47, commi da 1 a 7, del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66 (Misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 23 giugno 2014, n. 89.
L’art. 46, rubricato concorso delle regioni e delle province autonome alla riduzione della spesa pubblica, al primo comma, stabilisce: ‹‹le Regioni a statuto speciale e le province autonome, in conseguenza dell'adeguamento dei propri ordinamenti ai principi di coordinamento della finanza pubblica, introdotti dal presente decreto, assicurano un contributo alla finanza pubblica pari a quanto previsto nei commi 2 e 3››.
Tale disposizione è seguita da tabelle, nelle quali vengono indicati gli importi dovuti dalle Regioni e dalle Province autonome, per gli anni 2014 e 2015-17, oltre che gli accantonamenti previsti per i suddetti anni.
L’art. 47, invece, stabilisce una serie di misure vocate alla riduzione della spesa pubblica delle province, delle città metropolitane e dei comuni.
La Regione sosteneva che i nuovi e maggiori oneri, previsti a carico del bilancio regionale, dai citati commi I, II e III, dell’art. 46, avessero messo in crisi il raggiungimento dell’equilibrio finanziario del bilancio regionale, senza che vi fosse stata alcuna preventiva intesa, in violazione del principio di leale collaborazione fra Stato e Regione, e, da tale circostanza, derivava la lesione degli artt. 81 e 119 della Costituzione, oltre che degli artt. 36 e 43 dello statuto siciliano.
Assumeva, inoltre, che i commi da 1 a 7 dell’art. 47, nel prevedere che il mancato versamento, da parte di province e città metropolitane, del contributo alla finanza pubblica posto a loro carico, venisse recuperato dall’Agenzia delle entrate a valere sui versamenti per imposte sull’assicurazione contro la responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore, avrebbe violato l’art. 36 dello statuto siciliano e l’art. 2, primo comma, delle relative norme di attuazione, in quanto i proventi di tale imposta, in Sicilia, sarebbero spettati alla Regione.
Con specifico riferimento all’impugnativa dell’art. 46, commi 1 e 2, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito, prospettata con riferimento alla violazione degli artt. 81, ultimo comma, e 119 Cost., nonché dell’art. 36 dello statuto siciliano e dell’art. 2, primo comma, del d.P.R. n. 1074 del 1965, la Consulta ha dichiarato l’inammissibilità della questione, per oscurità del motivo di ricorso.
Il giudice delle leggi ha rilevato: ‹‹secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, i termini delle questioni di legittimità costituzionale debbono essere ben identificati, dovendo il ricorrente individuare le disposizioni impugnate, i parametri evocati e le ragioni dei dubbi di legittimità costituzionale. […] Orbene, con specifico riferimento all’impugnativa dell’art. 46, commi 1 e 2, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito, prospettata con riferimento alla violazione degli artt. 81, ultimo comma, e 119 Cost., nonché dell’art. 36 dello statuto siciliano e dell’art. 2, primo comma, del d.P.R. n. 1074 del 1965, va ribadita l’inammissibilità della questione, già stabilita, in riferimento a censura del tutto analoga, con la sentenza n. 238 del 2015 di questa Corte. In tale pronuncia – resa a fronte di un ricorso della stessa Regione siciliana, che impugnava (peraltro con apparato argomentativo ben più diffuso di quello speso dalla ricorrente in questa sede) una disposizione modificativa proprio dell’art. 1, comma 454, della legge n. 228 del 2012, ovvero della stessa disposizione ora analogamente modificata dall’art. 46, comma 2, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito e qui censurato – si era rilevato che il motivo di ricorso risultava particolarmente oscuro, in quanto pareva presupporre, senza alcun sostegno argomentativo, che i contributi alla finanza pubblica stabiliti dalla norma allora censurata a carico della ricorrente comportassero un trasferimento di risorse dalla Regione allo Stato. Si trattava, invece, come emergeva dal loro inquadramento nell’ambito dell’art. 1, comma 454, della legge n. 228 del 2012, di una riduzione della spesa regionale, che avrebbe dovuto agevolare, e non compromettere, come lamentato dalla ricorrente, il raggiungimento dell’equilibrio di bilancio. Le stesse considerazioni vanno ribadite in questo caso, tra l’altro a fronte, si ripete, di un apparato argomentativo assai più sintetico e ridotto, che tuttavia replica – dinnanzi ad analoghe misure di contenimento di spesa – i medesimi argomenti di sostanza››.
Le residue questioni sono state dichiarate non fondate.
In relazione al mancato raccordo con gli organi regionali, la Consulta ha sostenuto che in un contesto di grave crisi economica, il legislatore, nella determinazione delle modalità del concorso delle autonomie speciali alle manovre di finanza pubblica, può discostarsi dal modello contrattualistico, prefigurato dal citato art. 27 della legge n. 42 del 2009, fermo restando il necessario rispetto della sovraordinata fonte statutaria.
Relativamente, invece, all’asserita illegittimità della riserva erariale della imposta sulle assicurazioni contro la responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore, la Corte costituzionale ha evidenziato che, poiché con legge regionale 5 dicembre 2013, n. 21 (Disposizioni finanziarie urgenti per l’anno 2013. Disposizioni varie), la Regione ha provveduto a trasferire alle proprie Province la citata imposta, non si pone alcun problema di destinazione allo Stato di tributi spettanti alla Regione siciliana.
Con la sentenza n. 45/2016, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 1, della legge della Regione siciliana 12 agosto 2014, n. 21 (Assestamento del bilancio della Regione per l’anno finanziario 2014. Variazioni al bilancio di previsione della Regione per l’esercizio finanziario 2014 e modifiche alla legge regionale 28 gennaio 2014, n. 5 “Disposizioni programmatiche e correttive per l’anno 2014. Legge di stabilità regionale”. Disposizioni varie), sollevata dal Tribunale ordinario di Gela, in funzione di giudice del lavoro.
La disposizione censurata pone il divieto, a decorrere dalla data di entrata in vigore della legge regionale n. 21/2014, per l’Amministrazione regionale, per gli enti e gli organismi di cui all’articolo 1 della legge regionale 30 aprile 1991, n. 10, nonché per le società a partecipazione totale o maggioritaria della Regione, di erogare trattamenti di previdenza e quiescenza integrativi o sostitutivi in assenza di una espressa previsione legislativa regionale e/o statale che ne definisca l’ambito di applicazione, i presupposti, l’entità e la relativa copertura a carico dei rispettivi bilanci.
Il Tribunale di Gela riteneva che tale disposizione avesse provocato la soppressione delle pensioni erogate in via sostitutiva dal consorzio ASI in base alle previsioni di cui all’art. 12, comma 3, del regolamento interno, adottato con decreto dell’Assessore regionale per l’industria 5 aprile 2001 (Approvazione del testo coordinato del regolamento di organizzazione-tipo e del regolamento organico del personale-tipo dei consorzi per l’area di sviluppo industriale della Sicilia).
Il giudice remittente arrivava a tale conclusione sulla base dell’iter seguito per l’adozione dell’art. 8 citato.
Nello specifico, assumeva che nelle intenzioni originarie del legislatore regionale, vi era la volontà di far salva la corresponsione della pensione ai dipendenti dei consorzi, volontà dimostrata tanto da un inciso che era contenuto nel primo comma, il quale faceva salve tutte le pensioni erogate dal 1991, quanto dal successivo secondo comma, il quale, in maniera ancor più precisa, indicava il permanere dell’obbligo in capo ai consorzi di corrispondere il trattamento previdenziale.
Tanto l’inciso del primo comma, quanto l’intero secondo comma venivano però impugnati dal Commissario dello Stato, sulla scorta dell’art. 28 dello Statuto siciliano, e, proprio in seguito a detta impugnativa, venivano espunti dal testo di legge definitivo.
La soppressione di tutte le disposizioni che facevano salvi i trattamenti pensionistici, quindi, secondo quanto sostenuto dal giudice di prime cure, avrebbe dovuto imporre di ritenere che tali trattamenti fossero, in realtà, stati soppressi.
Il Tribunale di Gela, nell’ordinanza di rimessione, sosteneva, innanzi tutto, di trovarsi a decidere di un ricorso, presentato da un dipendente dei consorzi, volto all’ottenimento della pensione, che, in seguito all’adozione della norma impugnata, non veniva più corrisposto.
Da tale circostanza derivava la rilevanza della questione di legittimità costituzionale ai fini della risoluzione della controversia sottoposta a suo giudizio.
In punto di non manifesta infondatezza, deduceva, poi, che la legge regionale avesse leso il legittimo affidamento degli individui riposto nella corresponsione del trattamento pensionistico ed interferito con i diritti quesiti dei dipendenti della Regione Siciliana che avevano già maturato il diritto alla pensione, con la conseguente lesione degli artt. 36 e 38 della Costituzione.
Evidenziava, inoltre, la contrarietà della norma impugnata ai principi di razionalità e di ragionevolezza, in ragione del fatto che la norma non distingueva tra trattamenti pensionistici quesiti e trattamenti futuri, ancora non maturati e, pertanto, prospettava la lesione dell’art. 3 della Costituzione.
Nel dichiarare non fondata la questione, la Corte costituzionale ha sostenuto che la norma impugnata non ha soppresso le pensioni in via sostitutiva erogate dai consorzi.
Per quel che riguarda i consorzi ASI, infatti, a detta del giudice delle leggi, il fondamento normativo del diritto alla pensione, limitatamente ai trattamenti già liquidati, si poteva rinvenire in una complessa trama di disposizioni, che legava la disciplina speciale del personale dei Consorzi (art. 37 della legge regionale n. 1 del 1984) alle previsioni generali, dettate dalla legge della Regione siciliana 23 febbraio 1962, n. 2, con riguardo alle «Norme per il trattamento di quiescenza, previdenza ed assistenza del personale della Regione».
Esistendo un fondamento normativo dal quale derivare il diritto a pensione, per i dipendenti dei suddetti consorzi, appare evidente la ragione per la quale, secondo la Corte costituzionale, tali pensioni sfuggano all’applicazione della norma impugnata.
Tabella riepilogativa
Provvedimento |
Giudizio |
Oggetto |
Norma/e impugnata/e |
Parametri invocati |
Decisione |
Sentenza n. 3 del 2016 |
Questione di legittimità costituzionale in via principale |
Riserva erariale di entrate tributarie |
Art. 1, commi 508 e 590, della legge 27 dicembre 2013, n. 147 |
Artt. 20, 36 e 43 dello Statuto della Regione Siciliana; Artt. 81, 97 e 119 della Costituzione |
Inammissibilità della questione relativa all’art. 1, comma 508; Non fondatezza della questione relativa al comma 590 |
Sentenza n. 29 del 2016 |
Questione di legittimità costituzionale in via principale |
Riordino Camere di Commercio – Decurtazione contributo annuale |
Art. 28 del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90. |
Art. 14 dello Statuto della Regione Siciliana; Artt. 81, 97 e 119 Cost. |
Infondatezza |
Sentenza n. 31 del 2016 |
Questione di legittimità costituzionale in via principale |
Riserva erariale su maggiori entrate derivanti dalla lotta all’evasione fiscale |
Art. 7, commi 1 e 1 bis, del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66. |
Art. 36 dello Statuto della Regione Siciliana |
Accoglimento parziale della questione di legittimità costituzionale |
Sentenza n. 40 del 2016 |
Questione di legittimità costituzionale in via principale |
Nuovi e maggiori oneri a carico della Regione Siciliana - Riserva erariale su entrate tributarie asseritamente spettanti alla Regione |
Artt. 46, commi 1, 2 e 3, e 47, commi da 1 a 7, del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66. |
Artt. 36 e 43 dello Statuto della Regione Siciliana; Art. 2 delle norme di attuazione; Artt. 81 e 119 Cost. |
Parziale infondatezza e parziale inammissibilità della questione |
Sentenza n. 45 del 2016 |
Questione di legittimità costituzionale in via incidentale |
Soppressione delle pensioni erogate in via sostitutiva dai consorzi ASI |
Art. 8, comma 1, della legge regionale 12 agosto 2014, n. 21 |
Artt. 3, 36 e 38 Cost. |
Infondatezza |
Precedenti decisioni richiamate: - in merito alla lacunosa formulazione del ricorso di legittimità costituzionale (sentenze n. 273 del 2015, n. 218 del 2015, n. 176 del 2015 e n. 131 del 2015, n. 241 del 2012); - in merito alla proponibilità di questioni prospettate sulla base di una delle possibili interpretazioni delle disposizioni impugnate (sentenza n. 131 del 2015); - in merito alla natura tributaria del contributo di solidarietà riscosso in Sicilia (sentenza n. 241 del 2012); - in merito al requisito di novità dei tributi il cui gettito è destinato allo Stato (sentenza n. 145 del 2014); - in merito alla possibilità per la Regione di denunciare una legge statale per violazione di competenze degli enti locali (sentenze n. 220 del 2013, n. 298 del 2009, n. 169 e n. 95 del 2007, n. 417 del 2005 e n. 196 del 2004); - in merito alla possibilità per la Regione di denunciare la violazione del riparto di competenze da parte del legislatore statale, solo quando tale violazione sia ridondante e con indicazione delle competenze ritenute lese (sentenze n. 251, n. 153, n. 89 e n. 13 del 2015, n. 79 e n. 44 del 2014); - in merito alla natura di tributi erariali, dei tributi istituiti e regolati da una legge statale, il cui gettito è destinato alla Regione o ad un ente locale (sentenze n. 131 del 2015, n. 26 del 2014, n. 97 del 2013, n. 123 del 2010, n. 216 del 2009, n. 397 del 2005, n. 37 del 2004, n. 296 del 2003); - in merito ai limiti in cui incorre il legislatore statale per modificare tributi il cui gettito è destinato ad una Regione o ad un ente locale (sentenze n. 188, n. 131 e n. 89 del 2015, n. 26 e n. 23 del 2014, n. 121 e n. 97 del 2013, n. 246 e n. 241 del 2012, n. 298 del 2009, n. 145 del 2008, n. 256 del 2007 e n. 431 del 2004); - in merito all’applicazione dei principi di finanza pubblica ai soggetti ad autonomia speciale (sentenza n. 77 del 2015); - in merito alla non esclusione della illegittimità costituzionale di una previsione legislativa in presenza di una clausola di salvaguardia, quando tale clausola sia in contraddizione con il testo di legge che fa esplicito riferimento alle Regioni speciali o alle Province autonome (sentenze n. 156 e n. 77 del 2015); - in merito all’esigenza di una più adeguata motivazione del ricorso introduttivo di un giudizio in via principale, rispetto ad un’ordinanza di rimessione di un giudizio in via incidentale (sentenze n. 251, n. 233, n. 218, n. 142, n. 82 e n. 32 del 2015); - in merito alle condizioni del trasferimento della questione di legittimità costituzionale alla norma successiva che ha modificato la norma impugnata, in caso di ius superveniens (sentenza n. 326 del 2010 e n. 155, n. 77 e n. 46 del 2015); - in merito alla impossibilità del trasferimento della questione di legittimità costituzionale in ipotesi di ius superveniens (sentenze n. 17 del 2015, n. 138 del 2014, n. 300 e n. 32 del 2012); |