Sentenza n. 35/2017 – giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale
Deposito del 09/02/2017 – Pubblicazione in G. U. 15/02/2017, n. 7
Motivo della segnalazione
Con questa lunga e articolata sentenza la Corte costituzionale si è pronunciata sui dubbi di costituzionalità sollevati da diversi tribunali italiani in riferimento ai contenuti del c.d. Italicum (legge n. 52/2015), dopo aver nuovamente affrontato i rilevanti profili attinenti all’ammissibilità delle questioni.
Cominciando da questi ultimi profili, viene in rilievo, in primo luogo, l’eccezione avanzata dal Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, relativa all’asserita inammissibilità, per difetto di rilevanza, di tutte le questioni di legittimità costituzionale sollevate. L’eccezione si fonda sulla asserita mancanza di interesse ad agire da parte dei ricorrenti, dal momento che si tratta di disposizioni di legge non ancora applicabili, a differenza di quanto si era verificato nell’ambito della vicenda processuale conclusa con la sentenza n. 1/2014, allorquando erano venute in rilievo disposizioni elettorali applicabili e già applicate in tre occasioni. Di conseguenza, secondo la Presidenza del Consiglio, risulterebbe impossibile distinguere tra oggetto del giudizio a quo e oggetto del controllo di costituzionalità, palesando l’assenza di concretezza, incidentalità e pregiudizialità delle questioni sollevate.
Si rileva inoltre che l’esigenza di evitare le cosiddette zone franche nel sistema di giustizia costituzionale non giustificherebbe la creazione «in via pretoria» di un regime di sindacato praeter legem che, in relazione alle leggi elettorali, anticipi lo scrutinio di legittimità costituzionale, rispetto a quanto avviene per tutte le altre fonti primarie.
La Corte, a fronte di queste censure, richiama, in via di premessa, gli argomenti avanzati nel 2014 a sostegno della rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale: motivazione sufficiente e non implausibile in ordine all’interesse ad agire dei ricorrenti; non sovrapponibilità tra giudizio a quo e giudizio della Corte e conseguente positivo riscontro del requisito della pregiudizialità, sussistendo una differenza tra oggetto del primo (l’accertamento della «pienezza» del diritto di voto) e oggetto del secondo (la legge elettorale politica, la cui conformità a Costituzione è posta in dubbio) e residuando un margine di autonoma decisione in capo al giudice a quo, dopo l’eventuale sentenza di accoglimento di questa Corte; la rilevanza e peculiarità del diritto di voto, che richiede di essere tutelato, attraverso l’azione di accertamento; infine, la necessità che non siano sottratte al sindacato della Corte, evitandosi la produzione di zone franche nel sistema di giustizia costituzionale, leggi rilevantissime, come quelle elettorali, che definiscono le regole di composizione di organi costituzionali essenziali per il funzionamento del sistema democratico.
La Corte tiene a rilevare che l’inammissibilità dichiarata con precedenti decisioni in relazione a questioni sollevate in merito a leggi elettorali diverse da quella per le Camere (come quella per l’elezione del Parlamento europeo) si giustifica soprattutto in ragione del fatto che quelle disposizioni possono pervenire al vaglio di legittimità costituzionale in un giudizio avente ad oggetto una controversia originatasi nel procedimento elettorale. A differenza della legge elettorale per le Camere, per cui sono di ostacolo l’art. 66 Cost. l’art. art. 87 del d.P.R. n. 361 del 1957, come interpretati dai giudici comuni e dalle Camere in sede di verifica delle elezioni, in questi casi alla Corte si può arrivare per una via diversa da quella dell’azione di accertamento.
Con riferimento al caso di specie, il giudice delle leggi afferma: «l’incertezza oggettiva sulla portata del diritto di voto è direttamente ricollegabile alla modificazione dell’ordinamento giuridico dovuta alla stessa entrata in vigore della legge elettorale, alla luce dei contenuti di disciplina che essa introduce nell’ordinamento. Non rileva la circostanza che, come avviene in questo caso, le disposizioni della legge siano ad efficacia differita, poiché il legislatore – stabilendo che le nuove regole elettorali siano efficaci a partire dal 1° luglio 2016 – non ha previsto una condizione sospensiva dell’operatività di tali regole, legata al verificarsi di un evento di incerto accadimento futuro, ma ha indicato un termine certo nell’an e nel quando per la loro applicazione». E aggiunge che «la rimozione di tale incertezza rappresenta, quindi, un risultato utile, giuridicamente rilevante e non conseguibile se non attraverso l’intervento del giudice. Ne deriva la sussistenza, nei giudizi a quibus, di un interesse ad agire in mero accertamento».
Per altro verso, la Corte rileva che risulta infondata l’obiezione secondo la quale le questioni sollevate difetterebbero di pregiudizialità, essendo impossibile distinguere tra oggetto dei giudizi a quibus e oggetto del controllo di costituzionalità. Richiama, a tal proposito, quanto affermato nella sentenza n. 1/2014, in cui aveva chiarito che nel giudizio a quo il petitum consiste nella richiesta di accertare la pienezza costituzionale del diritto di voto; nel giudizio costituzionale, invece, si chiede di dichiarare che il diritto di voto è pregiudicato dalla disciplina vigente.
La Corte si confronta poi con la sollecitazione, ad opera delle parti di alcuni dei giudizi a quo, a sollevare davanti a se stessa questioni di legittimità costituzionale sull’intera legge n. 52 del 2015, «con particolare riferimento ai suoi articoli fondamentali (1, 2 e 4)», poiché essa sarebbe stata approvata, prima al Senato e poi alla Camera, «in palese violazione dell’art. 72, commi 1 e 4, Cost. e dell’art. 3 del protocollo CEDU (per come richiamato dall’art. 117, comma 1, Cost.)», in ragione del ricorso di fiducia alla Camera e in ragione, al Senato, della compressione dei tempi e modi dell’esame in commissione e del ricorso ad un emendamento premissivo, durante l’esame in assemblea, la cui approvazione aveva determinato l’inammissibilità di tutti gli ulteriori emendamenti presentati.
La Corte ha dichiarato inammissibile l’istanza, richiamando il principio che il giudizio di legittimità costituzionale non può estendersi oltre i limiti fissati dall’ordinanza di rimessione e richiamando, inoltre, la circostanza che nei giudizi principali le relative eccezioni hanno formato oggetto di pronunce di manifesta infondatezza, con la conseguenza che «la sollecitazione affinché questa Corte decida di sollevare di fronte a sé questioni già ritenute manifestamente infondate finisce per configurarsi, nella sostanza, come improprio ricorso a un mezzo di impugnazione delle decisioni dei giudici a quibus».
Soffermandoci sulle singole questioni di legittimità costituzionale rispetto alle quali il giudice delle leggi è entrato nel merito (alcune sono invece dichiarate inammissibili, tra l’altro, per carenza/oscurità della motivazione), viene in rilievo, in primo luogo, la questione, sollevata dal Tribunale di Genova, secondo la quale le disposizioni della legge elettorale per la Camera che prevedono l’attribuzione di 340 seggi alla lista che, al primo turno di votazione, ottenga, a livello nazionale, il 40 per cento dei voti – calcolata tale percentuale sui suffragi validamente espressi – comprimerebbe irragionevolmente l’eguaglianza del voto e la rappresentatività della Camera, in violazione degli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost. Si lamenta in sostanza una distorsione eccessiva del voto in uscita a favore della lista vincente al primo turno, che «deriverebbe dalla circostanza che il calcolo della percentuale è operato sul numero di voti validi espressi e non in relazione al complesso degli aventi diritto al voto, dovendosi inoltre considerare, nella valutazione dell’intero sistema, la compresenza del premio e della soglia di sbarramento del 3 per cento su base nazionale per l’accesso delle liste al riparto dei seggi».
La Corte dichiara infondata la questione alla luce del seguente percorso argomentativo. In primo luogo, il giudice delle leggi ricorda di aver sempre riconosciuto, in generale, al legislatore un’ampia discrezionalità in riferimento alla scelta del sistema elettorale ritenuto più idoneo in relazione al contesto storico-politico, salva la possibilità di censurare scelte manifestamente irragionevoli. Tra le altre, nella sentenza n. 1/2014, la Corte ha in particolare rilevato che la scelta di innestare su un sistema proporzionale la previsione di un premio di maggioranza, senza la contestuale previsione di una soglia minima di voti e/o di seggi ai fini della sua attribuzione comporta un’eccessiva sovrarappresentazione della lista di maggioranza relativa.
La disposizioni adesso in esame prevedono invece una soglia minima di voti per l’attribuzione del premio, che non appare in sé irragionevole, realizzando un ragionevole bilanciamento tra i principi della rappresentatività della Camera e dell’eguaglianza del voto, da un lato, e gli obiettivi, anche essi di rilevanza costituzionale della stabilità del governo del Paese e della rapidità del processo decisionale, dall’altro. Ritenere il contrario – afferma la Corte – significherebbe ritenere ammissibile solamente premi “di governabilità”, a vantaggio di liste che avessero già ottenuto il 50% dei voti e/o dei seggi e non veri e propri premi “di maggioranza”. La determinazione della soglia, salva la censurabilità di soglie irragionevolmente basse, rientra pienamente nella discrezionalità del legislatore. All’interno di tale discrezionalità rientra anche la scelta sul calcolo della soglia in riferimento ai voti validamente espressi oppure agli aventi diritto al voto, profilo che del resto non aveva assunto alcun rilievo all’interno della sentenza n. 1/2014.
Quanto agli effetti asseritamente distorsivi della combinazione tra premio di maggioranza e soglia di sbarramento, premesso che la legge n. 52/2015 ha introdotto una soglia di sbarramento non irragionevolmente elevata (3%), la Corte rileva che non può considerarsi incostituzionale la previsione contestuale di premio di maggioranza e soglia di sbarramento. Afferma infatti il giudice delle leggi: «non è manifestamente irragionevole che il legislatore, in considerazione del sistema politico-partitico che intende disciplinare attraverso le regole elettorali, ricorra contemporaneamente, nella sua discrezionalità, a entrambi tali meccanismi. Del resto, se il premio ha lo scopo di assicurare l’esistenza di una maggioranza, una ragionevole soglia di sbarramento può a sua volta contribuire allo scopo di non ostacolarne la formazione. Né è da trascurare che la soglia può favorire la formazione di un’opposizione non eccessivamente frammentata, così attenuando, anziché aggravando, i disequilibri indotti dalla stessa previsione del premio di maggioranza». Di un certo significato, oltre al nucleo dell’argomentazione della Corte, risulta anche l’obiter dictum relativo alla funzionalità della previsione di una soglia di sbarramewnto all’agevolazione del formarsi di un’opposizione non eccessivamente frammentata e, perciò, in grado di attenuare i disequilibri prodotti dalla previsione del premio di maggioranza.
La Corte respinge agevolmente un’altra questione sollevata dal Tribunale di Genova, secondo cui violerebbero gli artt. 1, secondo comma, 3 e 48, secondo comma, Cost. le disposizioni che consentono l’assegnazione del premio di maggioranza alla lista che abbia ottenuto il maggior numero di voti, anche nel caso in cui due liste superino, al primo turno, il 40 per cento di essi. In questo caso, secondo il giudice a quo, non dovrebbe procedersi all’assegnazione del premio.
La Corte rigetta la questione rilevando come sia «nella logica di un sistema elettorale con premio di maggioranza che alle liste di minoranza, a prescindere dalla percentuale di voti raggiunta, sia attribuito un numero di seggi inferiore rispetto a quello che sarebbe loro assegnato nell’ambito di un sistema proporzionale senza correttivi». La pronuncia additiva richiesta dal giudice a quo, che chiede di dichiarare incostituzionali le disposizioni censurate, nella parte in cui non escludono l’assegnazione del premio nell’ipotesi descritta, non può dunque essere emessa, perché le previsioni impugnate non sono manifestamente irragionevoli, mentre sarebbe intrinsecamente contraddittorio il sistema elettorale che uscirebbe fuori da una simile pronuncia. La scelta richiesta dal giudice rimettente, anche a prescindere da tale contraddittorietà, rientra, in ogni caso, eventualmente, nella discrezionalità del legislatore.
La Corte dichiara infondata una questione sollevata dal Tribunale di Genova, il quale, sulla base di una lettura letterale delle previsioni impugnate, conclude che le stesse imporrebbero irragionevolmente di procedere al ballottaggio, anche se una lista abbia ottenuto al primo turno 340 seggi, ma non anche il 40% dei voti.
Rilevato che un caso del genere potrebbe pur presentarsi, se pure in ipotesi assolutamente residuali, la Corte dichiara infondata la questione, in quanto basata su un falso presupposto interpretativo. Se si considera che obiettivo dell’Italicum è quello di favorire la formazione di una maggioranza, consentendo di fare in modo che una lista ottenga comunque almeno 340 seggi si devono necessariamente interpretare le norme impugnate «nel senso che resta ferma l’attribuzione dei seggi effettuata dall’Ufficio centrale nazionale (quella di cui al comma 1, numero 4, del citato art. 83), quando la lista abbia già ottenuto 340 seggi, cioè quando abbia avuto «esito positivo» la verifica di cui al comma 1, numero 6), della medesima disposizione, anche a prescindere dalla percentuale dei voti ottenuti da tale lista».
La Corte risponde alle questioni sollevate dai tribunali di Torino, Perugia, Trieste e Genova, i quali dubitano della compatibilità con gli artt. 1, secondo comma, 3, e 48, secondo comma, Cost. delle disposizioni della legge n. 52 del 2015, nelle parti in cui prevedono – se nessuna lista ha raggiunto, al primo turno, almeno il 40 per cento del totale dei voti validi espressi – un turno di ballottaggio fra le liste che abbiano superato la soglia di sbarramento nazionale del 3 per cento e abbiano ottenuto, al primo turno, le due maggiori cifre elettorali nazionali. Ad essere lamentata dai giudici a quibus sarebbe in sostanza l’artificiosità della maggioranza risultante dal turno di ballottaggio, che sarebbe determinata dal fatto che il legislatore non ha tenuto in alcun modo conto del fatto che, al ballottaggio, l’astensione dal voto potrebbe assumere una consistenza molto rilevante, in considerazione della riduzione dell’offerta elettorale, e che quindi avrebbe potuto risultare necessaria la previsione di correttivi. Tra questi, ad esempio, il raggiungimento di un quorum minimo di votanti in tale turno, o di un quorum minimo al primo turno (ulteriore rispetto alla soglia di sbarramento del 3%), considerato anche che è esclusa, in vista del turno di ballottaggio, qualsiasi forma di collegamento fra liste. In conseguenza di ciò, si determinerebbe, un’alterazione eccessiva e sproporzionata della rappresentatività della Camera, in vista del raggiungimento dell’obiettivo della governabilità. Ciò porterebbe i giudici rimettenti a richiedere l’eliminazione, per la via della dichiarazione di incostituzionalità, della previsione del turno di ballottaggio.
La dichiarazione di fondatezza della questione, a cui la Corte perviene, muove dalla considerazione che il turno di ballottaggio non è costruito come una nuova votazione rispetto a quella svoltasi al primo turno, ma come la sua prosecuzione. Vi accedono infatti le sole due liste più votate al primo turno, senza che siano consentite, tra i due turni, forme di collegamento o apparentamento fra liste, mentre, al contempo, la ripartizione percentuale dei seggi, anche dopo lo svolgimento del turno di ballottaggio, resta – per tutte le liste diverse da quella vincente, ed anche per quella che partecipa, perdendo, al ballottaggio – la stessa del primo turno. Il fine del ballottaggio è quello di individuare una lista vincente, consentendo ad una lista il raggiungimento di quella soglia minima di voti che nessuna aveva invece ottenuto al primo turno.
Alla luce di ciò, la Corte afferma che «poiché, per le caratteristiche già ricordate, il ballottaggio non è che una prosecuzione del primo turno di votazione, il premio conseguentemente attribuito resta un premio di maggioranza, e non diventa un premio di governabilità», conseguendo da ciò che «le disposizioni che disciplinano l’attribuzione di tale premio al ballottaggio incontrano a loro volta il limite costituito dall’esigenza costituzionale di non comprimere eccessivamente il carattere rappresentativo dell’assemblea elettiva e l’eguaglianza del voto».
Tali principi costituzionali non sarebbero garantiti dalle norme censurate dato che, «una lista può accedere al turno di ballottaggio anche avendo conseguito, al primo turno, un consenso esiguo, e ciononostante ottenere il premio, vedendo più che raddoppiati i seggi che avrebbe conseguito sulla base dei voti ottenuti al primo turno». Ne consegue, secondo la Corte, che «le disposizioni censurate riproducono così, seppure al turno di ballottaggio, un effetto distorsivo analogo a quello che questa Corte aveva individuato, nella sentenza n. 1 del 2014, in relazione alla legislazione elettorale previgente».
Le previsioni impugnate sono dunque da dichiarare incostituzionali, quindi, perché «producono una sproporzionata divaricazione tra la composizione di una delle due assemblee che compongono la rappresentanza politica nazionale, centro del sistema di democrazia rappresentativa e della forma di governo parlamentare prefigurati dalla Costituzione, da un lato, e la volontà dei cittadini espressa attraverso il voto, «che costituisce il principale strumento di manifestazione della sovranità popolare secondo l’art. 1 della Costituzione» (sentenza n. 1 del 2014), dall’altro».
Inoltre, innestandosi la previsione del ballottaggio e del premio di maggioranza ad esso connesso su un sistema elettorale ispirato ad una logica proporzionalistica, si deve constatare che «il perseguimento della finalità di creare una maggioranza politica governante in seno all’assemblea rappresentativa, destinata ad assicurare (e non solo a favorire) la stabilità del governo, avviene a prezzo di una valutazione del peso del voto in uscita fortemente diseguale, al fine dell’attribuzione finale dei seggi alla Camera, in lesione dell’art. 48, secondo comma, Cost.».
La Corte, ribadito che non è la previsione in sé di un turno di ballottaggio a risultare incostituzionale, bensì la specifica sua disciplina, afferma che le eventuali modifiche che potrebbero rendere compatibile con la Costituzione la disciplina censurata ricadono nell’area della discrezionalità del legislatore.
Da segnalare, oltre all’affermazione che la «la normativa che resta in vigore a seguito della caducazione del citato comma 5 dell’art. 83 del d.P.R. n. 361 del 1957 è idonea a garantire il rinnovo, in ogni momento, dell’organo costituzionale elettivo, così come richiesto dalla costante giurisprudenza costituzionale», sono due considerazioni operate dal giudice delle leggi, come obiter dicta.
In primo luogo, la Corte afferma che il ballottaggio in questione, usato come istanza risolutiva di una competizione che si svolge, al secondo turno, tra due liste, all’interno di un collegio unico nazionale deve essere disciplinato alla luce della complessiva funzione che spetta ad un’assemblea elettiva nel contesto di un regime parlamentare. Tale ballottaggio – afferma il giudice delle leggi - «non può essere accostato alle esperienze, proprie di altri ordinamenti, ove al ballottaggio si ricorre, nell’ambito di sistemi elettorali maggioritari, per l’elezione di singoli rappresentanti in collegi uninominali di ridotte dimensioni», dal momento che «in casi del genere, trattandosi di eleggere un solo rappresentante, il secondo turno è funzionale all’obbiettivo di ridurre la pluralità di candidature, fino ad ottenere la maggioranza per una di esse, ed è dunque finalizzato, oltre che alla elezione di un solo candidato, anche a garantirne l’ampia rappresentatività nel singolo collegio».
La Corte rileva, in secondo luogo, che la conclusione raggiunta in ordine al ballottaggio previsto dall’Italicum non produce alcuna conseguenza con riferimento al ballottaggio previsto nel nostro ordinamento per l’elezione di sindaci (e consiglieri) dei comuni maggiori. Il giudice delle leggi afferma infatti: «è pur vero che nel sistema elettorale comunale l’elezione di una carica monocratica, quale è il sindaco, alla quale il ballottaggio è primariamente funzionale, influisce in parte anche sulla composizione dell’organo rappresentativo. Ma ciò che più conta è che quel sistema si colloca all’interno di un assetto istituzionale caratterizzato dall’elezione diretta del titolare del potere esecutivo locale, quindi ben diverso dalla forma di governo parlamentare prevista dalla Costituzione a livello nazionale».
La Corte affronta poi una questione sollevata dal Tribunale di Messina su alcune disposizioni in materia di assegnazione dei seggi e di proclamazione degli eletti. Si lamenta, in particolare, che «un seggio, da assegnarsi in una determinata circoscrizione, potrebbe risultare assegnato in un’altra (ingenerando un fenomeno di traslazione di seggi, noto anche con il termine “slittamento”). Assume che tale esito si porrebbe in contrasto con l’art. 56 Cost. e si duole, in particolare, della violazione del suo quarto comma, il quale prevede che “[l]a ripartizione dei seggi tra le circoscrizioni […] si effettua dividendo il numero degli abitanti della Repubblica, quale risulta dall’ultimo censimento generale della popolazione, per seicentodiciotto e distribuendo i seggi in proporzione alla popolazione di ogni circoscrizione, sulla base dei quozienti interi e dei più alti resti”». In questa previsione, il giudice rimettente riscontra le basi di una rappresentanza cosiddetta territoriale e della responsabilità dell’eletto rispetto agli elettori che lo hanno votato, «asseritamente lesi dalle disposizioni censurate, nelle parti in cui prevedono che, se una lista ha esaurito, in una circoscrizione, il numero dei candidati potenzialmente eleggibili, i seggi spettanti a quella lista vengono trasferiti in un’altra circoscrizione in cui vi siano candidati “eccedentari”».
Nell’ambito di una ricostruzione del sistema di attribuzione dei seggi alle liste, la Corte rileva che l’Ufficio elettorale centrale nazionale, dopo aver determinato quanti seggi spettino a ciascuna lista a livello nazionale, sulla base dei voti ottenuti, deve verificare la somma dei seggi assegnati alle liste nelle circoscrizioni corrisponda al numero dei seggi loro spettanti a livello nazionale, ovvero se vi siano liste che, in base al riparto a livello circoscrizionale, ne hanno ottenuti di più (liste cosiddette “eccedentarie”) ovvero di meno (liste cosiddette “deficitarie”) rispetto a quelli loro spettanti a livello nazionale. In questo secondo caso, l’Ufficio è chiamato ad operare delle correzioni. Considerato che le circoscrizioni sono suddivise al loro interno in collegi plurinominali, le compensazioni si realizzano, ove possibile, tra i collegi plurinominali collocati all’interno della stessa circoscrizione o, ove non fosse possibile, «l’Ufficio centrale nazionale deve proseguire, per la stessa lista eccedentaria, nell’ordine dei decimali crescenti, fino ad individuare un’altra circoscrizione all’interno della quale sia contestualmente possibile sottrarre il seggio alla lista eccedentaria e assegnarlo a quella deficitaria».
Ciò detto, la Corte basa la dichiarazione di infondatezza della questione sollevata, in primo luogo, sulla circostanza che le regole elettorali oggetto di censura prevedono cautele molto ampie proprio al fine di evitare la traslazione lamentata dal giudice a quo, a cui si ricorre solo come extrema ratio e in via del tutto residuale. In secondo luogo, l’infondatezza, per il giudice delle leggi, si rivela ancora più chiaramente alla luce di una interpretazione dell’art. 56, quarto comma, Cost. in modo non isolato, ma in sistematica lettura con i principi desumibili dagli artt. 67 e 48 Cost. Le norme sull’assegnazione dei seggi sono finalizzate, allo stesso tempo, a garantire: ex art. 56, comma 4, che la rappresentanza sia commisurata alla popolazione di ciascun territorio; che l’attribuzione dei seggi avvenga sulla base della cifra elettorale nazionale ottenuta da ciascuna lista (soluzione funzionale anche all’operatività della soglia di sbarramento nazionale del 3%; si tenga conto, nella prospettiva degli elettori, del consenso ottenuto da ciascuna lista nelle singole circoscrizioni, alla luce dell’art. 48 Cost.
Come rileva il giudice delle leggi, infatti, «l’art. 56, quarto comma, Cost. non è preordinato a garantire la rappresentanza dei territori in sé considerati (sentenza n. 271 del 2010), ma, come si è detto, tutela la distinta esigenza di una distribuzione dei seggi in proporzione alla popolazione delle diverse parti del territorio nazionale: la Camera resta, infatti, sede della rappresentanza politica nazionale (art. 67 Cost.), e la ripartizione in circoscrizioni non fa venir meno l’unità del corpo elettorale nazionale, essendo le singole circoscrizioni altrettante articolazioni di questo nelle varie parti del territorio».
La Corte prende in considerazione poi una questione sollevata dal Tribunale di Messina in relazione alle disposizioni secondo cui le liste, all’interno dei singoli collegi, sono composte da un candidato capolista e da un elenco di candidati, tra i quali ultimi l’elettore può esprimere fino a due preferenze per candidati di sesso diverso scelti tra quelli non capilista.
Una volta ammesso che, alla luce dei contenuti della sentenza n. 1/2014, un sistema elettorale che preveda liste, per così dire, “semi-bloccate” (bloccate limitatamene al capolista) potrebbe ritenersi conforme a Costituzione, il giudice remittente «dubita, tuttavia, che il sistema così introdotto garantisca all’elettore la possibilità di esprimere un voto diretto, libero e personale, in quanto, particolarmente per gli elettori che votano per le liste di minoranza, potrebbe concretamente realizzarsi un effetto distorsivo dovuto al formarsi di una rappresentanza parlamentare largamente dominata dai capilista bloccati, “pur se con il correttivo della multicandidatura”». Si lamenta, in altri termini, che solamente la lista che conseguisse il premio di maggioranza potrebbe ottenere degli eletti mediante preferenze. Nonostante la possibilità di candidature plurime dei capilista apra la strada ad un incremento del numero degli eletti mediante preferenze, il giudice rimettente lamenta la violazione della libertà del diritto di voto degli elettori delle liste di minoranza, liste a cui, se superiori a tre, potrebbero in teoria essere assegnati solamente deputati eletti senza preferenze.
La Corte, richiamando quanto affermato nella sentenza n. 1/2014, afferma che «mentre lede la libertà del voto un sistema elettorale con liste bloccate e lunghe di candidati, nel quale è in radice esclusa, per la totalità degli eletti, qualunque indicazione di consenso degli elettori, appartiene al legislatore discrezionalità nella scelta della più opportuna disciplina per la composizione delle liste e per l’indicazione delle modalità attraverso le quali prevedere che gli elettori esprimano il proprio sostegno ai candidati».
Le disposizioni del nuovo sistema elettorale non ledono invece la libertà di voto dell’elettore, di cui all’art. 48, comma 2, dal momento che, secondo la Corte, «il sistema elettorale previsto dalla legge n. 52 del 2015 si discosta da quello previgente per tre aspetti essenziali: le liste sono presentate in cento collegi plurinominali di dimensioni ridotte, e sono dunque formate da un numero assai inferiore di candidati; l’unico candidato bloccato è il capolista, il cui nome compare sulla scheda elettorale (ciò che valorizza la sua preventiva conoscibilità da parte degli elettori); l’elettore può, infine, esprimere sino a due preferenze, per candidati di sesso diverso tra quelli che non sono capilista».
Un cenno merita anche il riferimento della Corte al fatto che l’indicazione di candidati capilista è espressione anche della posizione costituzionale dei partiti, ai sensi dell’art. 49 Cost., configurati dalla Costituzione come strumenti attraverso cui i cittadini possano concorrere alla determinazione della politica nazionale, con metodo democratico.
La Corte si confronta, inoltre, con le censure mosse dai Tribunali di Torino, Perugia, Trieste e Genova nei confronti della disposizione che prevede che il deputato eletto in più collegi plurinominali deve dichiarare alla Presidenza della Camera dei deputati, entro otto giorni dalla data dell’ultima proclamazione, quale collegio plurinominale prescelga, senza che l’opzione richiesta al suddetto sia subordinata ad alcun criterio oggettivo e predeterminato, il più possibile rispettoso della volontà espressa dagli elettori. Di conseguenza, si registrerebbe una violazione degli artt. 3 e 48 Cost., «in quanto il voto di preferenza espresso nei confronti di candidati non bloccati verrebbe vanificato nel collegio arbitrariamente prescelto dal candidato capolista eletto in più collegi: la sua opzione potrebbe, infatti, impedire l’attribuzione di un seggio ad un candidato che pure abbia ottenuto molti voti di preferenza, se il capolista sceglie quel collegio; al contrario, la sua scelta potrebbe determinare l’elezione di un candidato che abbia ottenuto anche un esiguo consenso personale, nel caso in cui il capolista non opti per tale collegio».
La Corte dichiara incostituzionale la disposizione impugnata, rilevando che «l’opzione arbitraria affida irragionevolmente alla decisione del capolista il destino del voto di preferenza espresso dall’elettore nel collegio prescelto, determinando una distorsione del suo esito in uscita, in violazione non solo del principio dell’uguaglianza ma anche della personalità del voto, tutelati dagli artt. 3 e 48, secondo comma, Cost.». Del resto – si rileva - «la libera scelta dell’ambito territoriale in cui essere eletto – al fine di instaurare uno specifico legame, in termini di responsabilità politica, con il corpo degli elettori appartenenti ad un determinato collegio – potrebbe semmai essere invocata da un capolista che in quel collegio abbia guadagnato l’elezione con le preferenze, ma non certo, ed in ipotesi a danno di candidati che le preferenze hanno ottenuto, da un capolista bloccato».
Pur non spettando alla Corte, bensì alla discrezionalità del legislatore, scegliere, tra le diverse possibili, soluzioni alternative a quella dichiarata illegittima, non può, in ogni caso, la stessa non può esimersi dalla dichiarazione di incostituzionalità, considerato che, nella parte non impugnata della previsione, si fa riferimento, per il caso residuale di mancata scelta da parte del capolista plurieletto, al ricorso al criterio del sorteggio.
Resta conseguentemente in vigore una normativa elettorale di risulta immediatamente applicabile, anche in relazione a tale profilo, come richiesto da una consolidata giurisprudenza costituzionale, così da rendere possibile in ogni momento il rinnovo dell’organo costituzionale elettivo, salva, naturalmente, la possibilità per il legislatore di sostituire quella del sorteggio con un’altra ritenuta più adeguata, oltre che rispettosa della volontà degli elettori.
Sorvolando su alcune questioni “minori”, dichiarate inammissibili dal giudice delle leggi, bisogna, da ultimo, soffermarsi sulla disposizione che prevede che le norme che ridisegnano il sistema elettorale della Camera dei deputati si applicano a partire dal 1° luglio 2016. Il giudice rimettente rileva una violazione degli artt. 1, 3, 48, primo comma, 49, 51, primo comma, e 56, primo comma, Cost., in ragione della situazione di ingovernabilità che si determinerebbe, in caso di ricorso alle urne, a legislazione elettorale per il Senato invariata, in ragione del determinarsi di due diverse maggioranze (sebbene, al momento del sollevamento della questione, fosse in itinere la riforma costituzionale, poi respinta in sede referendaria).
La Corte dichiara inammissibile la questione in ragione della genericità ed assertività delle affermazioni contenute nell’ordinanza di rimessione, che non supportano con adeguate e articolate motivazioni le censure mosse in riferimento a molti parametri costituzionali, che ci si è limitati ad enumerare. D’altra parte – aggiunge la Corte – il giudice a quo non lamenta la violazione degli artt. 94, comma 1, e 70 Cost., che dovrebbero venire necessariamente in considerazione, qualora si voglia argomentatamente sostenere che la differenza tra le due leggi elettorali è in grado di compromettere sia il funzionamento della forma di governo parlamentare, sia l’esercizio della funzione legislativa, che spetta costituzionalmente ad entrambe le Camere.
La Corte conclude peraltro con un obiter dictum, secondo cui, alla luce dell’esito del referendum del 4 dicembre 2016 e del permanere di un sistema parlamentare fondato sul bicameralismo paritario, «la Costituzione, se non impone al legislatore di introdurre, per i due rami del Parlamento, sistemi elettorali identici, tuttavia esige che, al fine di non compromettere il corretto funzionamento della forma di governo parlamentare, i sistemi adottati, pur se differenti, non ostacolino, all’esito delle elezioni, la formazione di maggioranze parlamentari omogenee».