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La Corte costituzionale e i corsi universitari in lingua inglese (2/2017)

Sentenza n. 42/2017 – giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale

Deposito del 24/02/2017 – Pubblicazione in G. U. 01/03/2017 n. 9

Motivo della segnalazione

La decisione in questione trae le mosse da un’ordinanza del Consiglio di Stato, sesta sezione, relativa all’art. 2, comma 2, lettera l), della legge 30 dicembre 2010, n. 240 (Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario). La disposizione appena menzionata prevede il «rafforzamento dell’internazionalizzazione anche attraverso una maggiore mobilità dei docenti e degli studenti, programmi integrati di studio, iniziative di cooperazione interuniversitaria per attività di studio e di ricerca e l’attivazione, nell’ambito delle risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente, di insegnamenti, di corsi di studio e di forme di selezione svolti in lingua straniera».
Il Senato accademico del Politecnico di Milano, basandosi su tale previsione legislativa, aveva attivato dei corsi universitari che prevedevano l’uso esclusivo della lingua inglese. Alla decisione degli organi accademici aveva fatto seguito un ricorso al TAR Lombardia; dall’impugnazione della sentenza del TAR Lombardia scaturisce quindi il giudizio in cui il Consiglio di Stato si è trovato a dubitare della legittimità costituzione dell’art. 2 della c.d. legge Gelmini, con riferimento agli artt. 3, 6 e 33 Cost.
Secondo la ricostruzione dei giudici di Palazzo Spada, “la disposizione censurata, per come sopra interpretata, violerebbe: a) l’art. 3 Cost., poiché permetterebbe una «ingiustificata abolizione integrale della lingua italiana per i corsi considerati», non tenendo peraltro conto delle loro diversità, «tali da postulare, invece, per alcuni di essi, una diversa trasmissione del sapere, maggiormente attinente alla tradizione e ai valori della cultura italiana, della quale il linguaggio è espressione»; b) l’art. 6 Cost., ponendosi in contrasto con il principio dell’ufficialità della lingua italiana da esso ricavabile a contrario; c) l’art. 33 Cost., compromettendo la libera espressione della comunicazione con gli studenti, da ritenersi senz’altro compresa nella libertà di insegnamento.” (punto 1.1 del considerato in diritto)
La Corte, una volta superate le eccezioni di inammissibilità sollevate dall’Avvocatura generale dello Stato, ha valutato le questioni presentatele come infondate.
In primo luogo, il giudice delle leggi, richiamata la propria stessa giurisprudenza (in particolare, le sentt. 88/2011, 62/1992, 15/1996, 28/1982, 159/2009), ha ribadito la posizione di primazia della lingua italiana, quale “vettore della cultura e della tradizione immanenti nella comunità nazionale, tutelate anche dall’art. 9 Cost.”; in un contesto connotato “[dal]la progressiva integrazione sovranazionale degli ordinamenti e l’erosione dei confini nazionali determinati dalla globalizzazione […] il primato della lingua italiana non solo è costituzionalmente indefettibile, bensì – lungi dall’essere una formale difesa di un retaggio del passato, inidonea a cogliere i mutamenti della modernità – diventa ancor più decisivo per la perdurante trasmissione del patrimonio storico e dell’identità della Repubblica, oltre che garanzia di salvaguardia e di valorizzazione dell’italiano come bene culturale in sé.” (punto 3.1 del considerato in diritto). Tale centralità va colta, in particolar modo, nell’ambito scolastico e universitario.
La disposizione censurata, nel delineare i percorsi tramite cui gli atenei possono perseguire l’obiettivo dell’internazionalizzazione, prevede che ciò possa avvenire “anche” tramite l’attività didattica in lingua straniera. Tuttavia – come rimarca la Corte – “ove si interpretasse la disposizione oggetto del presente giudizio nel senso che agli atenei sia consentito predisporre una generale offerta formativa che contempli intieri corsi di studio impartiti esclusivamente in una lingua diversa dall’italiano, anche in settori nei quali l’oggetto stesso dell’insegnamento lo richieda,” si verrebbe a determinare un illegittimo sacrificio dei princìpi di supremazia della lingua, sopra richiamati. Le ricadute negative di una simile decisione, rimarcate dalla consulta, sono diverse. In primo luogo, si produrrebbe un’estromissione integrale e indiscriminata dell’italiano dall’insegnamento universitario. In secondo luogo, si avrebbe quale possibile effetto l’esclusione di alcuni studenti – capaci e meritevoli, ma privi di conoscenza della lingua inglese – dai corsi stessi. Infine, si avrebbe una lesione della libertà di insegnamento, sia imponendo al docente una certa lingua straniera quale lingua veicolare, sia influendo, indirettamente, sulle assegnazioni dei corsi da tenere in una lingua diversa dall’italiano. Tuttavia, la Corte costituzionale ritiene che sia possibile dare un’interpretazione conforme della disciplina censurata. In particolare, la Corte sottolinea che se “principî costituzionali [invocati dal rimettente], se sono incompatibili con la possibilità che intieri corsi di studio siano erogati esclusivamente in una lingua diversa dall’italiano, nei termini dianzi esposti, non precludono certo la facoltà, per gli atenei che lo ritengano opportuno, di affiancare all’erogazione di corsi universitari in lingua italiana corsi in lingua straniera, anche in considerazione della specificità di determinati settori scientifico-disciplinari.” (punto 4.1 del considerato in diritto). Di seguito, il giudice delle leggi precisa che “solo con un eccesso di formalismo e di severità potrebbe affermarsi che, anche con riferimento a questi ultimi, i principî costituzionali di cui agli artt. 3, 6, 33 e 34 Cost. impongano agli atenei di erogarli a condizione che ve ne sia uno corrispondente in lingua italiana. È ragionevole invece che, in considerazione delle peculiarità e delle specificità dei singoli insegnamenti, le università possano, nell’ambito della propria autonomia, scegliere di attivarli anche esclusivamente in lingua straniera. Va da sé che, perché questa facoltà offerta dal legislatore non diventi elusiva dei principî costituzionali, gli atenei debbono farvi ricorso secondo ragionevolezza, proporzionalità e adeguatezza, così da garantire pur sempre una complessiva offerta formativa che sia rispettosa del primato della lingua italiana, così come del principio d’eguaglianza, del diritto all’istruzione e della libertà d’insegnamento.” (punto 4.2 del considerato in diritto; corsivi aggiunti).
La Corte quindi ‘salva’ la possibilità, per le università, di varare corsi che prevedano l’utilizzo di una lingua straniera, ma con dei limiti da essa stessa individuati.

Osservatorio sulle fonti

Rivista telematica registrata presso il Tribunale di Firenze (decreto n. 5626 del 24 dicembre 2007). ISSN 2038-5633.

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