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Nell’ambito di una controversia plurisecolare, la Corte ribadisce che la potestà di interpretazione autentica spetta a chi è titolare della funzione legislativa nella materia cui la norma è riconducibile (1/2017)

Sentenza n. 228/2016 – giudizio di legittimità costituzionale in via principale

Deposito del 24 ottobre 2016 – pubblicazione in GU del 26 ottobre 2016, n. 43

Motivo della segnalazione

Il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 32, comma 2, della legge della Regione Toscana 25 marzo 2015, n. 35 (Disposizioni in materia di cave. Modifiche alla l.r. 78/1998, l.r. 10/2010 e l.r. 65/2014). Ad avviso della difesa statale, tale disposizione, nell’includere i beni estimati nel patrimonio indisponibile comunale, nonostante consistenti elementi facciano ritenere che essi siano oggetto di proprietà privata, colmerebbe una lacuna nell’ordinamento civile italiano, violando la competenza esclusiva dello Stato in materia di «ordinamento civile».

Il richiamato art. 32, comma 2, viene peraltro censurato anche dal Tribunale ordinario di Massa, in riferimento allo stesso art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., nonché agli artt. 3, 24, 42, 97, 102, 111, 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (CEDU), e 117, terzo comma, Cost.

I due giudizi, aventi ad oggetto la medesima disposizione, sono riuniti dalla Corte per essere decisi con un’unica pronuncia.

Nel giudizio in via principale la Regione ha eccepito, accanto ad altri aspetti di minore rilievo, l’inammissibilità del ricorso per insufficiente ricostruzione del quadro normativo, in quanto lo Stato avrebbe sollevato la questione muovendo dall’erroneo presupposto che la legislazione estense sia stata abrogata dalla legge mineraria del 1927; la Corte tuttavia ribadisce di avere smentito una simile interpretazione, chiarendo come l’art. 64 del r.d. n. 1443 del 1927 abbia «mantenuto in vigore la legislazione preunitaria solo in via transitoria, fino al giorno dell’entrata in vigore dei detti regolamenti» (sentenza n. 488 del 1995), e che, dunque, l’effetto abrogativo della legislazione estense debba essere ricondotto al regolamento comunale, non alla legge del 1927. L’eccezione, pertanto, non è accolta.

Nel giudizio in via incidentale, poi, sia la Regione, sia il Comune di Carrara, hanno eccepito l’irrilevanza della questione, deducendo che si tratterebbe di una norma meramente ricognitiva, che non avrebbe introdotto nell’ordinamento una regola precettiva autonoma; la Corte tuttavia non ritiene fondata neppure questa eccezione.

Secondo la «costante giurisprudenza» della Corte, infatti «[i]l giudizio di rilevanza [...] è riservato al giudice rimettente, sì che l’intervento della Corte deve limitarsi ad accertare l’esistenza di una motivazione sufficiente, non palesemente erronea o contraddittoria, senza spingersi fino ad un esame autonomo degli elementi che hanno portato il giudice a quo a determinate conclusioni. In altre parole, nel giudizio di costituzionalità, ai fini dell’apprezzamento della rilevanza, ciò che conta è la valutazione che il rimettente deve fare in ordine alla possibilità che il procedimento pendente possa o meno essere definito indipendentemente dalla soluzione della questione sollevata, potendo la Corte interferire su tale valutazione solo se essa, a prima vista, appaia assolutamente priva di fondamento» (così la sentenza n. 71 del 2015). Un simile presupposto non si ritiene verificato nel caso di specie, «in quanto il rimettente ha motivato in maniera non implausibile circa la portata innovativa della norma impugnata, soprattutto rispetto ad un assetto normativo e giurisprudenziale che, fino a quel momento, avrebbe a suo avviso consolidato l’opposta configurazione dei beni estimati come beni privati».

Nel merito, la questione relativa alla violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., viene giudicata dalla Corte fondata.

Con la legge regionale n. 35 del 2015 la Regione Toscana ha dettato un’organica disciplina dell’attività estrattiva nell’ottica di salvaguardare, come risulta dallo stesso preambolo della legge, le «particolarità storiche, giuridiche ed economiche che caratterizzano i beni compresi nel suo territorio», tra i quali rientrano anche i cosiddetti beni estimati, di cui all’editto della duchessa Maria Teresa Cybo Malaspina del 1° febbraio 1751.

I beni estimati, precisa la Corte, «sono cave di limitate dimensioni territoriali, le quali, in ragione delle peculiari caratteristiche morfologiche che le contraddistinguono, non sono ormai coltivabili singolarmente e risultano in parte incorporate all’interno di una stessa unità produttiva insieme a cave pubbliche, soggette a concessioni comunali»; per ragioni tecniche ed economiche, «il legislatore regionale ha ritenuto di poterle sottoporre ad un medesimo regime concessorio, sulla premessa che i beni estimati appartengano al patrimonio indisponibile del Comune».

L’editto di Maria Teresa si limitava a cancellare l’obbligo del livello per le cave per le quali esso non fosse stato pagato da più di venti anni. Le cave così identificate vennero definite «beni estimati».

Quali fossero tali beni e quale dovesse essere il loro effettivo regime giuridico fu materia di controversia nei secoli successivi: dopo averle ripercorse, la Corte afferma che le «vicende successive all’editto del 1751, dunque, sono segnate da una sequenza di plurisecolari inefficienze dell’amministrazione, che hanno impedito le verifiche e gli accertamenti necessari a porre ordine alla materia. [...] Tuttavia, è un dato storicamente incontrovertibile che nel diritto vivente venutosi a consolidare nei secoli diciannovesimo e ventesimo, i beni estimati non sono trattati come beni appartenenti al patrimonio indisponibile del Comune, al quale dal 1812 erano stati trasferiti i beni delle vicinanze allora abolite. È un fatto che il Comune di Carrara non ha mai incluso i beni estimati tra quelli appartenenti al proprio patrimonio indisponibile; e che, quando, nel 1994, ha adottato il suo primo regolamento che, ai sensi della legge mineraria del 1927, poneva fine alla vigente legislazione estense, quei beni non sono stati trattati» (parr. 5.2 e 5.3 del cons. in dir.).

Anche la legge regionale 5 dicembre 1995, n. 104 (Disciplina degli agri marmiferi dei Comuni di Massa e Carrara), con cui la Regione ha per la prima volta disciplinato la materia qualificava gli agri marmiferi di Massa e Carrara come beni del patrimonio indisponibile comunale «se di essi il Comune risulti proprietario ai sensi delle normative in atto all’entrata in vigore della presente» (art. 1, commi 1 e 2). Di conseguenza, e ciò risulta di particolare interesse per la disciplina delle fonti, «la riconduzione dei beni estimati ai beni del patrimonio indisponibile del Comune operata dall’impugnato art. 32, comma 2, si configura alla stregua di un’interpretazione autentica dell’editto di Maria Teresa, effettuata con legge della Regione, in palese contrasto con tutta la prassi precedente. Ciò, in base alla giurisprudenza di questa Corte, esula, nella materia, dalle competenze della Regione» (par. 5.3). Infatti, «come precisato da questa Corte con la sentenza n. 232 del 2006, la potestà di interpretazione autentica spetta a chi sia titolare della funzione legislativa nella materia cui la norma è riconducibile» (sentenza n. 290 del 2009). Ed è innegabile che l’individuazione della natura pubblica o privata dei beni appartiene all’«ordinamento civile».

Pertanto, per la Corte «la Regione ha ecceduto i limiti della propria competenza legislativa, violando l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. Il che è accaduto non in ragione degli interessi pubblici che il legislatore regionale ha inteso tutelare, ma perché a tale tutela la Regione deve, se lo ritiene, provvedere con le competenze che possiede, non con competenze che costituzionalmente non le spettano», e non le resta che dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 32, comma 2, della legge della Regione Toscana 25 marzo 2015, n. 35 «per la parte in cui qualifica la natura giuridica di beni estimati».

Osservatorio sulle fonti

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