Sentenza della Corte di giustizia (Grande Sezione) del 14 maggio 2019, M (Révocation du statut de réfugié), cause riunite C-391/16, C-77/17 e C-78/17, ECLI:EU:C:2019:403
Nella sentenza M, la Corte di giustizia individua la Convenzione di Ginevra del 1951 relativa allo status di rifugiato e il suo protocollo come parametri di interpretazione e di validità della normativa derivata dell’Unione in materia di asilo, attraverso il rinvio espresso operato dagli artt. 78 par. 1 TFUE e 18 della Carta. La Corte è quindi competente a valutare il rispetto del livello di protezione previsto dalla suddetta Convenzione da parte della normativa dell’Unione, in particolare nel caso di revoca, cessazione o rifiuto dello status di rifugiato. Infatti, benché la direttiva 2011/95/UE stabilisca un sistema normativo che contiene nozioni e criteri comuni agli Stati membri e, pertanto, specifici dell’Unione, essa è nondimeno fondata sulla Convenzione di Ginevra. Partendo da tale premessa, la Corte ha quindi sottolineato che la qualità di “rifugiato”, ai sensi della direttiva e della Convenzione, non dipende dal riconoscimento formale di questa qualità mediante la concessione dello “status di rifugiato”, il quale può essere oggetto di revoca o diniego. Rispetto ai soggetti che rispondono alle condizioni materiali di “rifugiato” ma a cui è stato revocato tale status, la Corte chiarisce che, da un lato, essi non possono essere oggetto di respingimento o espulsione, in quanto il diritto dell’Unione, in particolare gli articoli 4 e 19 par. 2 della Carta, fornisce una tutela maggiore rispetto alla Convenzione di Ginevra. Dall’altro lato, le persone private dello status di rifugiato devono poter continuare a godere di un certo numero di diritti previsti dalla Convenzione di Ginevra, in quanto essi non perdono la qualità di rifugiato ai sensi della detta Convenzione e non possono essere esclusi dalla protezione internazionale che l’art. 18 della Carta impone di garantirgli. Tale livello minimo di protezione prevede che gli Stati membri assicurino solo i diritti espressamente previsti dall’art. 14, par. 6, della direttiva 2011/95 nonché quelli, fra i diritti enunciati nella Convenzione di Ginevra, che sono garantiti a qualsiasi rifugiato che si trovi nel territorio di uno Stato contraente e il cui godimento non presupponga una residenza regolare.
Nella sentenza M del 14 maggio 2019, la Corte di giustizia, nella formazione della Grande Sezione, è stata chiamata a pronunciarsi in via pregiudiziale sull’interpretazione e sulla validità della disposizione, contenuta nella Direttiva 2011/95/UE1 (c.d. Direttiva qualifiche), relativa alle ipotesi di revoca, cessazione o rifiuto di concessione dello status di rifugiato. In particolare, la sentenza ha offerto l’occasione alla Corte per chiarire il rapporto tra lo standard di tutele accordato ai cittadini di Paesi terzi in base al sistema europeo comune di asilo e quello derivante dalla Convenzione di Ginevra relativa allo status di rifugiato, firmata il 28 luglio 1951 (di seguito: Convenzione di Ginevra o Convenzione) e del suo Protocollo2 e, più in generale, tra il sistema istituito dall’Unione e quello previsto dalla detta Convenzione di diritto internazionale.
La Corte era stata adita in via pregiudiziale nell’ambito di tre procedimenti distinti, nei quali un cittadino di Paese terzo, dopo aver ottenuto il riconoscimento dello status di rifugiato o aver fatto domanda per il riconoscimento di tale forma di protezione, vedeva revocato il suo status o negata la sua concessione, a causa delle condanne riportate per la commissione di alcuni gravi reati. Chiamati a pronunciarsi a seguito dell’impugnazione della revoca e del rifiuto, i giudici nazionali3 decidevano di sospendere i procedimenti e adire la Corte di giustizia al fine di accertare se l’art. 14 paragrafi. 4 e 5 della Direttiva qualifiche, che introduce clausole di esclusione e cessazione dello status di rifugiato non corrispondenti a quelle tassativamente previste della Convenzione di Ginevra, fosse in contrasto con l’art. 78, par. 1 TFUE e l’art. 18 della Carta, in base ai quali l’Unione deve sviluppare una politica comune in materia di asilo e garantire tale diritto nel rispetto della Convenzione di Ginevra e al protocollo del 31 gennaio 1967.
Innanzitutto, la Corte valuta la sussistenza della sua competenza a pronunciarsi sulla validità della direttiva alla luce degli artt. 78 par. 1 TFUE e art. 18 della Carta, che fanno entrambi riferimento alla Convenzione di Ginevra. Il giudice dell’Unione sottolinea quindi che “benché l’Unione non sia parte contraente della Convenzione di Ginevra, l’articolo 78 paragrafo 1 TFUE e l’articolo 18 della Carta le impongono nondimeno il rispetto delle norme di tale convenzione” (par. 74). In questo modo, la Corte riconosce espressamente la Convenzione e il suo Protocollo quali parametri di validità degli atti dell’Unione in materia, nel caso di specie della Direttiva 2011/95/UE, attraverso il rinvio operato dalle disposizioni di diritto primario. Di conseguenza, “la Corte è competente ad esaminare la validità dell’articolo 14, paragrafi da 4 a 6 della direttiva 2011/95 alla luce dell’articolo 78, paragrafo 1, TFUE e dell’articolo 18 della Carta e, nel quadro di tale esame, a verificare se queste disposizioni possano essere interpretate in un senso che rispetti il livello di protezione garantito dalle norme della Convenzione di Ginevra” (par. 75).
La Corte prende quindi in esame la questione se l’art. 14, paragrafi 4 e 5 della Direttiva 2011/95/UE produca l’effetto di privare il cittadino di paese terzo o l’apolide interessato della qualità di rifugiato, violando di conseguenza la Convenzione di Ginevra. Il giudice dell’Unione procede quindi a valutare la compatibilità delle ipotesi di revoca, cessazione o rifiuto dello status di rifugiato contemplate dalla detta disposizione di diritto dell’Unione rispetto a quelle tassativamente previste dall’art. 1 della Convenzione di Ginevra.
La Corte ricorda quindi che prima di dichiarare l’incompatibilità con il diritto primario di un atto di diritto derivato, è necessario procedere alla sua interpretazione in modo da non inficiarne la validità e, nel caso fosse ammessa più di un’interpretazione, deve essere preferita quella che rende la disposizione conforme alle fonti gerarchicamente sovraordinate. Il giudice dell’Unione procede quindi a verificare se l’art. 14, paragrafi 4 e 5 della direttiva possa essere interpretato conformemente a quanto impongono gli articoli 78, par. 1 TFUE e 18 della Carta, in modo da assicurare che venga assicurato il livello di protezione garantito dalla Convenzione di Ginevra.
Innanzitutto, la Corte si sofferma sul sistema istituito dalla Direttiva 2011/95/UE, e più in generale sul sistema europeo comune di asilo di cui la direttiva fa parte. Dopo aver dato conto dei riferimenti normativi espressi alla Convenzione, il giudice dell’Unione sottolinea che “benché la Direttiva 2011/95/UE stabilisca un sistema normativo che contiene nozioni e criteri comuni agli Stati membri e, pertanto, specifici dell’Unione, essa è nondimeno fondata sulla Convenzione di Ginevra e ha lo scopo, in particolare, che l’art. 1 di tale convenzione sia pienamente rispettato” (par. 83, corsivo aggiunto).
Dopo tali precisazioni, la Corte si sofferma sul carattere del riconoscimento dello status di rifugiato, la cui definizione nel diritto dell’Unione riprende, in sostanza, quella fornita dalla Convenzione. In primo luogo, la Corte rileva che, in base al dettato della direttiva, “questo riconoscimento ha natura meramente ricognitiva e non costitutiva della qualità di rifugiato” (par. 85). Pertanto, nel sistema istituito dalla Direttiva 2011/95/UE, il cittadino di un paese terzo o apolide che soddisfi le condizioni materiali per essere considerato un rifugiato,”dispone, per questo solo fatto, della qualità di rifugiato ai sensi (…) della direttiva e (…) della Convenzione di Ginevra” (par. 86). Inoltre, la Corte, richiamando la propria giurisprudenza, ricorda che gli Stati membri sono tenuti a riconoscere lo status di rifugiato a qualsiasi cittadino di un paese terzo o apolide che soddisfi i requisiti materiali per essere considerato come rifugiato, “senza disporre di un potere discrezionale a tale riguardo” (par. 89). Secondo la Corte, quindi, la qualità di “rifugiato”, ai sensi della direttiva e della Convenzione, “non dipende dal riconoscimento formale di questa qualità mediante la concessione dello “status di rifugiato” (par. 90). Infatti, “il riconoscimento formale della qualità di rifugiato, che costituisce la concessione dello status di rifugiato, ha come conseguenza che il rifugiato interessato diventa beneficiario (…) della protezione internazionale” (par. 91), per cui egli dispone di tutti i diritti e benefici previsti dalla direttiva, la quale “contiene nel contempo diritti equivalenti a quelli contenuti nella Convenzione di Ginevra, e (…) tutele giuridiche ancora maggiori, che non hanno equivalenti in tale convenzione” (ibid.).
Successivamente, la Corte prende in esame l’art. 14, paragrafi. 4 e 5 della direttiva, rilevando che le ipotesi in cui lo Stato membro può procedere alla revoca o al rifiuto del riconoscimento dello status di rifugiato corrispondono, in sostanza, a quelle nelle quali gli Stati membri possono procedere al respingimento di un rifugiato, in forza dell’art. 21 della direttiva stessa e dell’art. 33, par. 2 della Convenzione di Ginevra.
Tuttavia, la Corte rileva innanzitutto come il sistema di protezione previsto dal diritto dell’Unione sia maggiore rispetto a quello assicurato dal sistema previsto dalla Convenzione. Infatti, mentre quest’ultima prevede, in determinate ipotesi, la possibilità di privare il rifugiato del beneficio del principio del non respingimento verso un paese in cui la sua vita o la sua libertà sia minacciata, la direttiva deve essere interpretata e applicata in conformità con gli artt. 4 e 19, par. 2 della Carta, che in termini assoluti vietano la tortura nonché i trattamenti inumani o degradanti, a prescindere dal comportamento dell’interessato, così come l’allontanamento dell’interessato verso uno Stato in cui esista un rischio serio di essere sottoposto a trattamenti del genere. Pertanto, “gli Stati membri non possono allontanare, espellere o estradare uno straniero quando esistono seri e comprovati motivi di ritenere che, nel paese di destinazione, egli vada incontro a un rischio reale di subire trattamenti proibiti dall’articolo 4 e dall’articolo 19, paragrafo 2 della Carta” (par. 94), anche se lo stesso rientri nelle ipotesi di revoca o rifiuto dello status, o di respingimento di cui all’art. 21 della direttiva. In definitiva, quindi, la Corte rileva che “il diritto dell’Unione prevede una protezione internazionale dei rifugiati interessati più ampia di quella garantita da detta Convenzione” (par. 96).
In secondo luogo, secondo la Corte, l’art. 14, paragrafi 4 e 5 della direttiva 2011/96/UE non può essere interpretato nel senso che, nel contesto del sistema istituito da tale direttiva, “la revoca dello status di rifugiato o il diniego di riconoscimento abbia come effetto che il cittadino di un paese terzo o l’apolide interessato (…) perda la qualità di rifugiato” (par. 97). Infatti, la circostanza che lo stesso rientri in una delle ipotesi previste dall’art. 14, paragrafi 4 e 5 della direttiva “non significa, per ciò solo, che quest’ultimo cessi di rispondere ai requisiti materiali da cui dipende la qualità di rifugiato, relativi all’esistenza di un fondato timore di persecuzioni nel suo paese di origine” (par. 98). Nel caso in cui i cittadini di paesi terzi si trovino privati dello status di rifugiato in base alle dette disposizioni, essi non potranno più godere dei diritti e dei benefici che sono associati a tale status in base alla direttiva. Tuttavia, secondo la Corte, “ ome prevede espressamente l’art. 14, par. 6 di detta direttiva, queste persone godono, o continuano a godere, di un certo numero di diritti previsti dalla Convenzione di Ginevra” (par. 99).
Pertanto, sebbene i cittadini di paesi terzi o apolidi non abbiano più lo status di rifugiato essi hanno, o continueranno ad avere, la qualità di rifugiato, ai sensi dell’art. 1 della Convenzione. La revoca o la cessazione dello status non hanno infatti l’effetto di privare il cittadino di paese terzo o l’apolide interessato, che ne soddisfi i requisiti materiali, della qualità di rifugiato ai sensi dell’art. 1 della Convenzione di Ginevra “e pertanto di escluderlo dalla protezione internazionale che l’articolo 18 della Carta, impone di garantirgli nel rispetto di detta convenzione” (par. 100).
In terzo luogo, la Corte procede all’interpretazione dell’art. 14, par. 6, della direttiva, nel quale è previsto che i soggetti interessati dal diniego o dalla revoca dello status di rifugiato, godono comunque di alcuni diritti conferiti dalla Convenzione di Ginevra, “o di diritti analoghi, purché siano presenti nello Stato membro”. Innanzitutto, la Corte chiarisce che la congiunzione “o” deve essere interpretata in senso cumulativo e che, per quanto concerne il termine “diritti analoghi” deve essere inteso nel senso che “l’applicazione dell’art. 14, par. 4 o 5 della direttiva 2011/95 ha come conseguenza, segnatamente, quella di privare l’interessato del permesso di soggiorno” (par. 103) collegato allo status di rifugiato. Pertanto, un rifugiato colpito dalla revoca, rifiuto o cessazione dello status, “può essere considerato, ai fini della determinazione dei diritti concessi in osservanza della Convenzione di Ginevra, come un soggetto che non risiede o non risiede più regolarmente nel territorio dello Stato membro interessato” (par. 104). Secondo la Corte, quindi, gli Stati membri sono tenuti ad assicurare ai rifugiati che si trovino sul loro territorio “solo i diritti espressamente previsti dall’art. 14, par. 6, di detta direttiva, nonché quelli, fra i diritti enunciati dalla Convenzione di Ginevra, che sono garantiti a qualsiasi rifugiato che si trovi nel territorio di uno Stato contraente e il cui godimento non presupponga una residenza regolare” (par. 105).
In ogni caso, la Corte precisa che, nonostante la privazione del permesso di soggiorno, il rifugiato a cui sia stato revocato o rifiutato lo status, può comunque essere autorizzato, in base ad un altro fondamento giudico a soggiornare legalmente nel territorio dello Stato membro interessato. In quel caso, l’art. 14 par. 6 della direttiva “non osta assolutamente a che detto Stato membro garantisca all’interessato il godimento di tutti i diritti collegati dalla Convenzione di Ginevra alla qualità di “rifugiato” (par. 106, corsivo aggiunto).
In definitiva, quindi, la Corte afferma che, l’art. 14, par. 6 della direttiva deve essere interpretato, conformemente agli artt. 78 TFUE e 18 della Carta, nel senso che lo Stato membro che prevede la revoca, cessazione o diniego dello status di rifugiato, deve concedere al rifugiato interessato da tale misura che si trovi nello Stato membro, “quanto meno, il godimento dei diritti sanciti dalla Convenzione di Ginevra ai quali [l’’]art. 14, par. 6, fa espresso riferimento nonché dei diritti previsti da detta convenzione il cui godimento non richieda una residenza regolare”, salvo le riserve formulate dagli Stati ai sensi della Convenzione (par. 107). Infatti, a prescindere dai diritti attribuiti in base all’art. 14, par. 6, della direttiva, quest’ultima “non può essere interpretata in nessun modo nel senso che produca l’effetto di incitare detti Stati a sottrarsi agli obblighi internazionali a loro incombenti, quali derivanti dalla Convenzione di Ginevra, limitando i diritti che tali soggetti traggono da questa convenzione” (par. 108).
Inoltre, la Corte sottolinea come lo Stato membro, anche in caso di revoca o diniego dello status di rifugiato, sia comunque tenuto a rispettare le disposizioni della Carta, “quali quelle contenuto nel suo art. 7, relativo al rispetto della vita privata e della vita familiare, nel suo art. 15, relativo alla libertà professionale e al diritto di lavorare, nel suo art. 34, relativo alla previdenza sociale e all’assistenza sociale, nonché del suo art. 35, relativo alla protezione della salute” (par. 109).
In conclusione, la Corte sottolinea come l’interpretazione fornita all’art. 14, paragrafi 4, 5 e 6 “garantisce che sia riconosciuto il livello di protezione minimo previsto dalla Convenzione di Ginevra, come imposto dall’art. 78 paragrafo 1, TFUE e dall’articolo 18 della Carta” (par. 111). Pertanto, dall’esame della domanda pregiudiziale, la Corte ritiene che non risultino elementi tali da incidere sulla validità delle menzionate disposizioni alla luce degli artt. 78, par. 1 TFUE e 18 della Carta.
1 Direttiva 2011/95/UE recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta (GU 2011, L 337).
2 Convenzione relativa allo status di rifugiato, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951, entrata in vigore il 22 aprile 1954, completata dal Protocollo relativo allo status dei rifugiati, concluso a New York, il 31 gennaio 1967, entrato in vigore il 4 ottobre 1967.
3 Il Nejvyšší správní soud (Corte suprema amministrativa, Repubblica ceca) relativamente alla causa C-391/16 e il Conseil du contentieux des étrangers (Consiglio per il contenzioso sugli stranieri, Belgio) per le cause C-77/17 e C-78/17.