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La Corte di Giustizia non è competente a pronunciarsi sulle violazioni di diritto dell’Unione meramente accessorie rispetto alla violazione di un accordo internazionale di cui l’Unione non sia parte e che esuli dalle competenze della stessa (1/2020)

(Sentenza della Corte di giustizia (Grande Sezione) del 31 gennaio 2020, Slovenia/Croazia, Causa C-457/18, ECLI:EU:C:2020:65)

La Corte ha affermato di non essere competente a statuire sul ricorso per inadempimento proposto dalla Slovenia nei confronti della Croazia, ai sensi dell’articolo 259 TFUE, poiché le asserite violazioni del diritto dell’Unione derivavano direttamente dalla presunta violazione, da parte della Croazia, degli obblighi scaturenti da una convenzione di arbitrato conclusa tra i due Stati al fine di risolvere la controversia, tra essi esistente, in merito alla definizione delle reciproche frontiere marittime e terrestri. La Corte nega la propria competenza in ragione del fatto che le violazioni lamentate risultavano meramente accessorie alla presunta violazione degli obblighi derivanti dalla convenzione di arbitrato e questa costituisce un accordo internazionale di cui l’Unione non è parte e che esula dalle sue competenze.

 

Nella sentenza Slovenia/Croazia del 31 gennaio 2020, la Corte di giustizia, nella formazione della Grande Sezione, è stata chiamata a pronunciarsi su un ricorso per inadempimento proposto dalla Repubblica di Slovenia nei confronti della Repubblica di Croazia, ai sensi dell’articolo 259 TFUE, per essere questa venuta meno ad alcuni obblighi ad essa derivanti in forza del diritto dell’Unione.

L’origine della questione risale al periodo successivo all’indipendenza della Slovenia e della Croazia dalla Repubblica sociale federale di Jugoslavia quando, tra i due Stati, era nata una controversia circa la definizione delle frontiere marittime e terrestri la cui definizione era stata poi rimessa a un tribunale arbitrale tramite la stipulazione, nel 2009, di una convenzione di arbitrato. Nel 2015, a seguito della pubblicazione, da parte di alcune testate giornalistiche, di talune comunicazioni ufficiosamente intercorse tra l’agente della Slovenia presso il tribunale arbitrale e l’arbitro nominato dalla Slovenia, la Croazia aveva comunicato di ritenere la Slovenia responsabile di una o più violazioni sostanziali dell’accordo di arbitrato e di volerlo pertanto estinguere, ai sensi dell’art. 60, paragrafi 1 e 3, della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati tra Stati. Nel giugno 2016, il tribunale arbitrale aveva adottato una sentenza parziale in cui statuiva che, nonostante il comportamento della Slovenia costituisse una violazione della convenzione di arbitrato, la sostituzione - disposta dal tribunale - dell’arbitro coinvolto nelle comunicazioni ufficiose avrebbe garantito il rispetto dei principi di imparzialità e indipendenza nel corso della procedura arbitrale. Le violazioni commesse non potevano pertanto considerarsi tali da privare la convenzione di arbitrato del suo oggetto e del suo scopo e da legittimare la Croazia a estinguerla ai sensi della Convenzione di Vienna. L’anno successivo, il tribunale arbitrale aveva adottato una sentenza con cui definiva le frontiere marittime e terrestri tra i due Stati e cui, tuttavia, la Croazia si è sempre rifiutata di dare esecuzione.

Nel 2018, la Slovenia, ritenendo che la mancata attuazione della pronuncia arbitrale le avrebbe impedito di esercitare la propria sovranità sulle aree, marittime e terrestri, aveva avviato una procedura di inadempimento nei confronti della Croazia, conformemente all’art. 259, par. 2, TFUE. La Slovenia denunciava, innanzitutto, una violazione dello Stato di diritto (art. 2 TUE), essendo la Croazia venuta meno all’impegno, assunto durante il processo di adesione all’UE, di rispettare la pronuncia arbitrale e, in particolare, il confine da essa definito. In secondo luogo, la Slovenia lamentava la violazione del principio di leale collaborazione di cui all’art. 4, par. 3, TUE, asserendo che la Croazia, non rispettando la frontiera definita dalla decisione arbitrale, avrebbe messo a rischio la realizzazione degli obiettivi dell’Unione e impedito alla Slovenia di dare attuazione al diritto dell’Unione sulla totalità del suo territorio. La Slovenia sosteneva inoltre che la Croazia, non rispettando la frontiera marittima definita dalla sentenza arbitrale, violava il diritto dell’Unione in materia di politica comune della pesca. Al riguardo, la Slovenia richiamava, innanzitutto, una violazione della disciplina dell’accesso reciproco definito dall’art. 5, par. 2, e dall’allegato I del regolamento 1380/2013[1], evidenziando in particolare che la Croazia si rifiutava di attuare il regime di accesso reciproco e di riconoscere la validità della legislazione adottata dalla Slovenia per dare attuazione a tale regime; lo Stato impediva, altresì, ai pescherecci sloveni il libero accesso alle acque qualificate come acque slovene dalla pronuncia arbitrale. Inoltre, la Slovenia affermava che la Croazia violava il regime di controllo istituito al fine di garantire il rispetto delle norme della politica comune della pesca dal regolamento 1224/2009[2] e dal regolamento di esecuzione (UE) n. 404/2011[3]. Secondo quanto sostenuto dalla Slovenia, le motovedette della polizia croata accompagnerebbero i pescherecci croati quando pescano in acque slovene, precludendo quindi agli ispettori della pesca sloveni di effettuare i controlli nelle acque slovene; i pescherecci sloveni sarebbero peraltro soggetti a sanzioni pecuniarie per illegittimo attraversamento del confine e pesca abusiva qualora pescano nelle acque che la Croazia non riconosce sotto la sovranità slovena; inoltre, la Croazia non trasmetterebbe alla Slovenia i dati relativi alle imbarcazioni di nazionalità croata in acque slovene, come richiesto dai regolamenti sopra citati. In tal modo, la Croazia con il suo comportamento, da un lato, non consentirebbe alla Slovenia di dare attuazione agli obblighi che, ai sensi del regime di controllo definito dal regolamento 1224/2009, dovrebbe esercitare nelle acque soggette alla sua sovranità e, d’altro lato, nelle acque territoriali slovene, eserciterebbe illegittimamente poteri che, invece, spetterebbero alla Slovenia in quanto Stato costiero.

Un’ulteriore censura mossa dalla Slovenia riguardava la violazione di alcune disposizioni del regolamento che istituisce il codice frontiere Schengen[4]. Si tratta, in particolare, degli artt. 13 e 17 relativi, rispettivamente, agli obblighi di sorveglianza delle frontiere e agli obblighi di cooperazione con gli altri Stati membri nell’assicurare un efficace controllo di frontiera. Inoltre, la Croazia, non dando esecuzione alla sentenza arbitrale, violerebbe l’art. 4 del regolamento, in forza del quale gli obblighi del suddetto regolamento devono trovare applicazione nel pieno rispetto delle pertinenti disposizioni di diritto internazionale.

Da ultimo, la Slovenia lamentava una violazione della direttiva 2014/89,[5] che istituisce un quadro per la pianificazione dello spazio marittimo, il cui ambito di applicazione riguarda le “acque marine che derivano dal pertinente diritto internazionale” (art. 2, par. 4). Il mancato riconoscimento, da parte della Croazia, delle acque qualificate dalla pronuncia arbitrale come acque territoriali slovene, avrebbe in particolare precluso l’applicazione dell’art. 11, par. 1, relativo alla cooperazione tra gli Stati membri in relazione ai piani di gestione dello spazio marittimo previsti dalla direttiva.

Nell’ambito del procedimento davanti alla Corte di giustizia, la Croazia ha sollevato un’eccezione di irricevibilità del ricorso e richiesto lo stralcio dal fascicolo della causa del parere reso dal servizio giuridico della Commissione. La Slovenia, che vi aveva avuto accesso tramite un link presente in un articolo pubblicato sul sito internet di un settimanale tedesco, lo aveva allegato alla risposta da essa presentata a fronte dell’eccezione di irricevibilità. Tuttavia, ad avviso della Croazia, trattandosi di un parere interno, adottato durante la fase precontenziosa del procedimento e mai reso pubblico, il mancato stralcio del documento dal fascicolo, sarebbe stato in contrasto con le esigenze dell’equo processo e avrebbe compromesso il buon funzionamento della Commissione.

A questo riguardo, la Corte ha evidenziato che la produzione in giudizio di un documento che non sia né stata autorizzata dalla Commissione né ordinata dalla Corte sarebbe in conflitto con “l’interesse pubblico che esige che le istituzioni possano fruire dei pareri dei loro servizi giuridici, forniti in piena indipendenza” (par. 66). Non si può peraltro ritenere che tale interesse sia venuto meno per la circostanza, richiamata dalla Slovenia, che il documento fosse stato fatto valere in un procedimento contro una parte diversa dall’istituzione da cui era stato adottato. Nella specifica fattispecie, l’interesse della Commissione a ottenere pareri giuridici “franchi, obiettivi e completi” (par. 70) avrebbe potuto essere ugualmente compromesso: il mantenimento del documento nel fascicolo avrebbe, infatti, posto la Commissione - la quale nella fase precontenziosa del presente procedimento non aveva adottato alcun parere motivato e non era intervenuta davanti alla Corte esprimendo la propria posizione a sostegno dell’una o dell’altra parte - nella condizione di dover prendere una posizione pubblica in merito ad un documento che, al contrario, era destinato ad un uso meramente interno.

Da ultimo, ad avviso della Corte, non è possibile ravvisare alcun interesse pubblico tale da giustificare il mantenimento del documento nel fascicolo stante il fatto che, in primo luogo, il parere in questione non aveva ad oggetto una procedura legislativa, per la quale si imporrebbe invece uno standard accresciuto di trasparenza” e, in secondo luogo, il mantenimento del documento sarebbe stato esclusivamente funzionale alla strategia argomentativa della Slovenia davanti alla Corte. Alla luce di tali considerazioni, la Corte ha accolto la domanda di stralcio del documento dal fascicolo di causa.

Per quanto concerne l’eccezione di irricevibilità del ricorso, la Croazia sosteneva che le violazioni del diritto dell’Unione, asserite dalla Slovenia, fossero meramente “accessorie” rispetto al “reale oggetto” della controversia riguardante, invece, la validità e gli effetti giuridici della convenzione di arbitrato, che si configura come un accordo di diritto internazionale non facente parte integrante del diritto dell’Unione. La Corte non avrebbe quindi alcuna competenza rispetto al reale oggetto della controversia che dovrebbe essere, al contrario, definita applicando norme di diritto internazionale.

L’eccezione di irricevibilità è stata risolta dalla Corte prendendo le mosse dal principio, affermato nella sentenza Commissione/Belgio[6], secondo cui, nell’ambito di un ricorso per inadempimento, la Corte non ha competenza a pronunciarsi riguardo agli obblighi derivanti in capo agli Stati membri in forza di un accordo internazionale, da essi concluso, di cui l’Unione non sia parte e il cui oggetto non rientri nelle sue competenze. In particolare, la competenza della Corte non può dirsi esistente neppure qualora il ricorso per inadempimento si fondi sulla violazione di disposizioni di diritto dell’Unione aventi “carattere accessorio rispetto alla presunta violazione di obblighi risultanti da un accordo internazionale quale sopra descritto” (par. 92). Dando applicazione a tale principio la Corte, richiamando le specifiche censure sollevate dalla Slovenia, è giunta a constatare che le asserite violazioni del diritto dell’Unione, da essa richiamate, derivano direttamente dalla violazione, ad opera della Croazia, dell’obbligo di rispettare le frontiere stabilite dalla pronuncia arbitrale.

A questo riguardo, la Corte ha rilevato che la sentenza arbitrale è stata adottata da un tribunale costituito in forza di un accordo internazionale di cui l’Unione non è parte e il cui oggetto non rientra nelle sue competenze. Nonostante la Corte abbia riconosciuto che l’Unione abbia offerto i suoi buoni uffici alle parti della controversia ai fini della sua risoluzione, nonché l’esistenza di “vincoli di connessione” tra la stipula della convenzione bilaterale di arbitrato e l’adesione della Croazia all’UE, tali circostanze non sono sufficienti a qualificare la convenzione di arbitrato e la sentenza arbitrale come parte del diritto dell’Unione. La Corte ha, in particolare, precisato che una tale incorporazione deve escludersi nonostante l’Atto relativo alle condizioni di adesione della Repubblica di Croazia e agli adattamenti del TUE, del TFUE e del Trattato che istituisce la Comunità europea dell’energia atomica, allegato al Trattato di adesione della Croazia all’Unione, contenga un esplicito riferimento alla sentenza adottata dal tribunale arbitrale. L’allegato III dell’Atto di adesione ha, infatti, adeguato il regolamento 2371/2002 in materia di conservazione e sfruttamento sostenibile delle risorse della pesca nell’ambito della politica comune della pesca[7], integrando l’allegato I con i punti relativi, rispettivamente, alle «Acque costiere della Croazia» e alle «Acque costiere della Slovenia» e specificando, nelle note a piè di pagina, che il regime di accesso alle acque costiere della Croazia e della Slovenia si applica a partire dall’attuazione della sentenza arbitrale[8].

Inoltre, come precisato dalla Corte, stante l’assenza nei Trattati di una precisa individuazione dei territori che ricadono sotto la sovranità degli Stati membri, spetta a questi ultimi, ai sensi dell’art. 77, par. 4, TFUE, la competenza nella delimitazione delle frontiere del proprio territorio, in conformità con le norme di diritto internazionale.

Alla luce di tali considerazioni, la Corte è giunta quindi ad affermare che l’esame, nell’ambito del ricorso proposto dalla Slovenia ai sensi dell’art. 259 TFUE, della questione relativa all’ampiezza e ai limiti dei territori della Slovenia e della Croazia, in applicazione della frontiera definita dalla sentenza arbitrale, al fine di verificare l’effettiva esistenza delle asserite violazioni del diritto dell’Unione, eccederebbe le competenze attribuite alla Corte dai Trattati e andrebbe ad invadere quelle riservate agli Stati membri in relazione alla determinazione geografica delle proprie frontiere.

Pur affermando la propria incompetenza a statuire sul ricorso per inadempimento presentato dalla Slovenia, la Corte non ha mancato di evidenziare che tale conclusione “lascia impregiudicato qualsiasi obbligo scaturente, per ciascuno dei due Stati membri interessati, nelle loro relazioni reciproche ma anche verso l’Unione e gli altri Stati membri, dall’articolo 4, paragrafo 3, TUE per adoperarsi lealmente ai fini della realizzazione di una soluzione giuridica definitiva conforme al diritto internazionale, quale auspicata nell’Atto di adesione, la quale assicuri l’applicazione effettiva e senza ostacoli del diritto dell’Unione nelle zone in questione e per porre fine alla loro disputa utilizzando l’uno o l’altro mezzo per la composizione di quest’ultima, ivi compresa, se del caso, la sottoposizione di tale disputa alla Corte in virtù di un compromesso ai sensi dell’articolo 273 TFUE” (par. 109).                                                                                                                                                                                                                        

 

[1] Regolamento (UE) n. 1380/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, dell'11 dicembre 2013 relativo alla politica comune della pesca, che modifica i regolamenti (CE) n. 1954/2003 e (CE) n. 1224/2009 del Consiglio e che abroga i regolamenti (CE) n. 2371/2002 e (CE) n. 639/2004 del Consiglio, nonché la decisione 2004/585/CE del Consiglio, OJ L 354, 28.12.2013; l’art. 5(2) prevede che «Nelle acque situate entro 12 miglia nautiche dalle linee di base soggette alla propria sovranità o giurisdizione, gli Stati membri sono autorizzati, fino al 31 dicembre 2022, a limitare le attività di pesca ai pescherecci che pescano tradizionalmente in tali acque e che provengono da porti situati sulla costa adiacente, ferme restando le disposizioni relative ai pescherecci unionali battenti bandiera di altri Stati membri previste dalle relazioni di vicinato esistenti tra Stati membri e le disposizioni contenute nell'allegato I che stabilisce, per ciascuno Stato membro, le zone geografiche delle fasce costiere di altri Stati membri in cui tali attività di pesca vengono esercitate nonché le specie interessate. Gli Stati membri informano la Commissione delle restrizioni imposte a norma del presente paragrafo».

[2] Regolamento (CE) n. 1224/2009 del Consiglio, del 20 novembre 2009, che istituisce un regime di controllo comunitario per garantire il rispetto delle norme della politica comune della pesca, che modifica i regolamenti (CE) n. 847/96, (CE) n. 2371/2002, (CE) n. 811/2004, (CE) n. 768/2005, (CE) n. 2115/2005, (CE) n. 2166/2005, (CE) n. 388/2006, (CE) n. 509/2007, (CE) n. 676/2007, (CE) n. 1098/2007, (CE) n. 1300/2008, (CE) n. 1342/2008 e che abroga i regolamenti (CEE) n. 2847/93, (CE) n. 1627/94 e (CE) n. 1966/2006, OJ L 343, 22.12.2009.

[3] Regolamento di esecuzione (UE) n. 404/2011 della Commissione, dell'8 aprile 2011, recante modalità di applicazione del regolamento (CE) n. 1224/2009 del Consiglio che istituisce un regime di controllo comunitario per garantire il rispetto delle norme della politica comune della pesca, OJ L 112, 30.4.2011.

[4] Regolamento (UE) 2016/399 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016, che istituisce un codice unionale relativo al regime di attraversamento delle frontiere da parte delle persone (codice frontiere Schengen), OJ L 77, 23.3.2016.

[5] Direttiva 2014/89/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 luglio 2014, che istituisce un quadro per la pianificazione dello spazio marittimo, OJ L 257, 28.8.2014.

[6] Corte di Giustizia, Commissione/Belgio, C‑132/09, sentenza del 30 settembre 2010.

[7] Regolamento (CE) n. 2371/2002 del Consiglio, del 20 dicembre 2002, relativo alla conservazione e allo sfruttamento sostenibile delle risorse della pesca nell'ambito della politica comune della pesca, OJ L 358, 31.12.2002.

[8] I medesimi punti e note sono stati poi riprodotti nel Regolamento 1380/2013, che ha abrogato il Regolamento n. 2371/2002.

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