1. La sentenza del Consiglio di Stato sulla riforma delle banche popolari.
Con la sentenza del 31 maggio 2021, n. 4168 (https://www.giustizia-amministrativa.it/portale/pages/istituzionale/visualizza?nodeRef=&schema=cds&nrg=201606605&nomeFile=202104169_11.html&subDir=Provvedimenti), la VI sezione del Consiglio di Stato ha chiuso la complessa vicenda giurisdizionale riguardante la riforma delle banche popolari (D.L. n. 3/2015, conv. con modificazioni con L. n. 33/2015).
La riforma, nonché l’attuazione che di essa aveva dato la Banca d’Italia, era stata portata all’attenzione del Tar del Lazio – Roma, Sez. III, con tre ricorsi.
In particolare, tali ricorsi avevano direttamente ad oggetto le disposizioni regolamentari della Banca d’Italia, adottate in data 11.06.2015 (pubblicate sul Bollettino di Vigilanza n. 6, reperibile sul sito www.bancaditalia.it), ovverosia il 9° aggiornamento alla Circolare n. 285 del 17.12.2013, emanato in attuazione delle deleghe normative contenute nei nuovi art. 28, co. 2-ter, e 29, co. 2-quater, del Testo Unico Bancario.
Il Consiglio di Stato, adito dopo la reiezione dei ricorsi da parte del TAR Lazio, ha dapprima sollevato questione di costituzionalità, decisa con la sentenza della Corte costituzionale n. 99/2018. Successivamente all’emissione di tale pronunzia, ritenuti comunque sussistenti possibili profili di contrasto con la normativa dell’Unione Europea, il Consiglio di Stato ha sollevato cinque quesiti pregiudiziali ex art. 267 TFUE, definiti con decisione della Corte di giustizia dell’Unione europea del 16 luglio 2020, in causa C-686/16.
Sia la Corte costituzionale che la Corte di giustizia, per quanto di competenza, hanno rilevato la non contrarietà della normativa in questione con i sovrastanti parametri normativi italiani ed europei: cosicché il Consiglio di Stato, sui profili più rilevanti della controversia, non ha fatto altro che recepire quanto affermato dalle due Corti, sia pure con una decisione non meramente ricognitiva, ma doverosamente ragionata e accurata.
Per quanto di interesse nella presente Rubrica, ci si concentrerà di seguito sulle parti della decisione che riguardano i più significativi profili di legittimità della normativa secondaria della Banca d’Italia sopra richiamata.
2. Sull’asserita “delega in bianco”.
Con una censura attinente ai presupposti legali, più che alle modalità di esercizio del potere regolatorio della Banca d’Italia, i ricorrenti lamentavano che il co. 2-ter dell’art. 28 del provvedimento legislativo sopra richiamato, nel prevedere che “nelle banche popolari e nelle banche di credito cooperativo il diritto al rimborso delle azioni nel caso di recesso, anche a seguito di trasformazione, morte o esclusione del socio, è limitato secondo quanto previsto dalla Banca d’Italia, anche in deroga a norme di legge”, avrebbe operato in materia una vera e propria delega “in bianco” all’Organo di vigilanza. Tale disposizione legislativa infatti, rimettendo alla Banca d’Italia un ampio potere di delegificazione, non avrebbe indicato le norme primarie suscettibili di essere derogate, oltretutto in ambiti coperti da riserva di legge.
Come sopra accennato, il Consiglio di Stato aveva già rimesso la relativa questione alla Corte costituzionale, la quale nella citata sentenza 99/2018, ne aveva dichiarato la non fondatezza, così motivando:
“La fattispecie normativa censurata non delinea un procedimento di delegificazione (…) La legge impugnata non attribuisce alla Banca d’Italia la facoltà di adottare una disciplina “sostitutiva” di quella già dettata dalla legge, e neppure riconduce all’entrata in vigore della fonte secondaria la contemporanea cessazione di efficacia di disposizioni legislative delegificate. È infatti l’organo cui spetta ordinariamente l’esercizio della funzione legislativa che ha introdotto direttamente ‒ e del tutto indipendentemente dall’entrata in vigore del provvedimento della Banca d’Italia ‒ la regola che consente una limitazione del diritto al rimborso delle azioni, in deroga alla disciplina ordinaria che pure rimane in vigore (…) In questo quadro è la legge stessa che comporta l’introduzione di previsioni statutarie che, anche in deroga alle norme del codice civile, accordino agli organi amministrativi la facoltà di limitare il rimborso delle azioni del socio uscente e degli altri strumenti di capitale computabili nel capitale primario di classe 1; mentre alla Banca d’Italia è affidato soltanto il compito di definire le condizioni tecniche che consentono alla banca di rispettare i coefficienti patrimoniali minimi stabiliti dalla normativa prudenziale europea”.
Né d’altronde la Corte aveva riscontrato alcuna violazione del principio di legalità sostanziale, così come contestato dai ricorrenti, ritenendo che alla Banca d’Italia, nel caso di specie, “non spetta alcuna valutazione politico-discrezionale sugli interessi in gioco, il cui bilanciamento – in particolare quello fra l’interesse dei soci che intendono recedere e quello della stabilità del sistema bancario ‒ è già definitivamente operato dalla legge”.
3. Sugli asseriti vizi autonomi delle disposizioni della Banca d’Italia.
Al punto n. 8 della sentenza in esame, il Consiglio di Stato si dedica all’esame delle delle censure sollevate nei riguardi delle Disposizioni del 9° Aggiornamento della Circolare n. 285 per “vizi di legittimità autonoma”, ovvero non derivati dall’asserita illegittimità costituzionale e/o “europea” della normativa primaria.
Meritano in particolare di essere segnalati, in proposito, due ordini di profili.
Innanzitutto, il Consiglio di Stato respinge la censura relativa ad una asserita illegittima “subdelega” della Banca d’Italia nei riguardi degli statuti delle banche popolari interessate, causata dall’omesso esercizio, di fatto, della potestà regolamentare attribuita dal comma 2-ter dell’art. 28 TUB in ordine alla limitazione del rimborso delle azioni in caso di recesso del socio.
Era stato contestato infatti che, in tali Disposizioni, la Banca d’Italia non avesse deciso i casi e i confini di tale limitazione, e che avesse invece richiesto una modifica degli statuti delle banche popolari che attribuisse all’organo amministrativo la facoltà di limitare o rinviare, in tutto o in parte e senza limiti di tempo, il rimborso delle azioni e degli altri strumenti di capitale del socio uscente per recesso. Non sarebbero dunque stati indicati criteri e limiti in ordine alla previsione di limitazioni al rimborso, né sarebbero state indicate le disposizioni codicistiche o le altre norme di legge suscettibili di deroga in caso di limitazione del rimborso.
Ebbene, il Consiglio di Stato ha respinto la censura in questione ricollegandosi nuovamente alle statuizioni della sentenza n. 99/2008 della Corte costituzionale, secondo cui alla Banca d’Italia, nel caso di specie, “non spettava alcuna valutazione politico-discrezionale” sul bilanciamento degli interessi in gioco, valutazione già operata, ex ante, dalla legge. Ciò che l’organo di vigilanza soltanto poteva fare e che, secondo la sentenza in esame, esso correttamente ha fatto, era definire le modalità tecniche di limitazione del diritto di rimborso, in una materia peraltro fortemente conformata da norme unionali (in specie, dal regolamento delegato dell’UE 241/2014).
Inoltre, la sentenza in esame ha preso posizione su di un’ulteriore questione sollevata in relazione alla normativa secondaria della Banca d’Italia, con riferimento alla circostanza che, nell’Atto di emanazione al 9° Aggiornamento menzionato (contenente per lo più indicazioni pratiche per l’adeguamento alla riforma da parte dei soggetti vigilati, e pertanto non sottoposto a preventiva consultazione con il mercato, a differenza delle Disposizioni dell’Aggiornamento vere e proprie), era stato inserito un chiarimento secondo cui la Banca d’Italia non avrebbe ritenuto in linea con la riforma stessa “operazioni da cui risulti la detenzione, da parte della società holding riveniente dalla ex “popolare”, di una partecipazione totalitaria o maggioritaria nella S.p.A. bancaria o, comunque, tale da rendere possibile l’esercizio del controllo nella forma dell’influenza dominante”. E ciò, in quanto uno dei contenuti fondamentali della riforma era costituito dall’obbligatoria trasformazione delle banche popolari in società per azioni al superamento di una certa soglia di attivo (presuntiva di una complessità operativa e gestionale incompatibile, per il legislatore, con le forme della società cooperativa): laddove l’operazione prefigurata nel chiarimento era ritenuta, evidentemente, elusiva di tale obbligo, finendo per riproporre, nella sostanza, gli stessi assetti decisionali e proprietari che la riforma mirava a superare per gli intermediari più grandi.
Ebbene, il giudice di primo grado aveva ritenuto la natura dell’Atto di emanazione in parola come esorbitante dalla mera precisazione a carattere descrittivo di precetti altrove formulati, riconducendo piuttosto l’atto in parola all’ampio genus degli “atti di regolazione”. Secondo il TAR del Lazio, l’Atto di emanazione avrebbe rivestito la natura di vero e proprio atto amministrativo generale, emesso nell’esercizio della funzione “giusdicente” dell’Autorità.
Ciò premesso, peraltro, il TAR aveva poi disatteso le doglianze dei ricorrenti, scrutinando l’indicazione in commento come pienamente coerente con la normativa sovraordinata, sotto il profilo sostanziale, nonché come coperta dai riferimenti sottoposti a consultazione, sotto quello procedimentale.
Il Consiglio di Stato, invece, arresta ancora prima il proprio ragionamento.
Esso, infatti, ha enucleato e circoscritto il reale contenuto dispositivo del passaggio in commento, che, all’interno di un generale approccio casistico nella valutazione delle operazioni conseguenti alla riforma, solo per una vicenda specifica (ovvero quella di una holding riveniente dalla ex popolare che controllasse la s.p.a. ove fosse confluita l’azienda bancaria della popolare stessa) “ha negato a priori una sua coerenza con le finalità sottese alla riforma normativa”.
Così circoscritto il riferimento della censura, l’appello è stato dichiarato, sul punto, improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, argomentandosi che i ricorrenti erano soci di banche popolari che, nel frattempo, si erano già trasformate in società per azioni, e che, dunque, non potevano avere più interesse a una pronuncia sul punto (essendosi già chiusa la vicenda sostanziale in cui avrebbe potuto trovare applicazione la “disposizione” contestata).
Secondo la pronunzia in esame, infatti, “l’indicazione operativa de qua ha una portata oggettiva limitata, non potendo influire su future operazioni societarie, suscettibili di essere eseguite dai soci della ex popolare per acquisire … il controllo della società per azioni bancaria risultante dalla trasformazione”.
L’arresto ai profili di rito, dunque, ha precluso al Consiglio di Stato un esame della legittimità procedurale e sostanziale dell’Atto di emanazione sottoposto al suo esame, nonché delle conclusioni del TAR sul punto.