Corte di giustizia (Grande Sezione), sentenza 9 giugno 2022, Causa C-673/20, EP contro Préfet du Gers, Institut national de la statistique et des études économiques, ECLI:EU:C:2022:449.
La sentenza in esame affronta diverse tematiche di carattere “costituzionale”. Segnatamente, la decisione si è concentrata sulla natura dello status di cittadinanza europea e sulle conseguenze che il recesso di uno Stato determina sullo stesso. Inoltre, nel valutare la compatibilità della decisione di conclusione dell’accordo di recesso del Regno Unito con il diritto primario e, segnatamente, con la Carta dei diritti fondamentali, la Corte di giustizia si è pronunciata altresì sull’autonomia “interna” dell’Unione nel negoziare il contenuto di un accordo internazionale.
La sentenza in oggetto è stata pronunciata dalla Grande Sezione della Corte di giustizia in seguito al rinvio pregiudiziale avanzato dal Tribunale giudiziario di Auch (Francia), nel corso della controversia che ha visto contrapposti EP, cittadina del Regno Unito residente in Francia dal 1984, e il prefetto del Gérs. Con riguardo ai fatti all’origine del ricorso principale è sufficiente ricordare che in seguito all’entrata in vigore dell’Accordo sul recesso del Regno Unito dall’Unione[1] (Accordo sul recesso, in avanti), il 1° febbraio 2020, EP è stata cancellata dalle liste elettorali in Francia, venendo così meno la possibilità di partecipare alle elezioni del comune di Thoux, tenutesi il successivo 15 marzo. In seguito al rigetto dell’istanza di re-iscrizione nella lista elettorale complementare riservata ai cittadini non francesi dell’Unione, EP si è rivolta al giudice del rinvio per contestare la decisione controversa. A sostegno del proprio ricorso, EP ha affermato che la perdita dello status di cittadino dell’Unione non può essere una conseguenza automatica del recesso del Regno Unito dall’Unione ed ha altresì aggiunto che il venir meno di detto status comporta la violazione dei principi della certezza del diritto e di proporzionalità, determinando una discriminazione tra cittadini dell’Unione oltre che una restrizione della libertà di circolazione.
Ritenendo fondate le argomentazioni mosse dalla ricorrente e nutrendo dubbi sulla corretta interpretazione del diritto dell’Unione rilevante, il giudice a quo ha sospeso il procedimento principale e ha rivolto alla Corte di giustizia quattro questioni pregiudiziali che possono essere così riassunte. In primo luogo, il giudice rimettente ha chiesto se l’art. 50 TUE, nonché gli artt. 20-22 TFUE, in combinato disposto con l’Accordo sul recesso, debbano essere interpretati nel senso che, dal momento del recesso del Regno Unito dall’Unione, i cittadini di tale Stato che hanno esercitato il diritto di soggiorno in uno Stato membro prima della fine del periodo di transizione non beneficiano più dello status di cittadino dell’Unione né, in particolare, del diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali nello Stato membro di residenza. Il giudice rimettente faceva notare inoltre che EP si trovava del tutto privata del diritto di voto attesto che, in base alla c.d. “norma dei 15 anni”, i cittadini del Regno Unito che risiedono da oltre 15 anni all’estero non hanno più il diritto di partecipare alle elezioni in tale Stato. A fronte di una risposta affermativa ai primi quesiti, il giudice a quo chiedeva in sostanza di accertare la validità della decisione del Consiglio che ha autorizzato la conclusione dell’Accordo sul recesso in relazione agli artt. 18, 20 e 21 TFUE, agli artt. 39 e 40 della Carta e al principio di proporzionalità.
I primi due quesiti sollevano implicitamente questioni inerenti alla natura dello status di cittadinanza europea. Il giudice rimettente, infatti, dubitava che il recesso di uno Stato membro dall’Unione determinasse il venir meno di tale status (anche) nei confronti dei cittadini inglesi residenti da tempo in un altro Stato membro dell’Unione. Al contrario, la Corte di giustizia ha ribadito con forza la natura derivata della cittadinanza europea che rimane (a Trattati invariati) legata in modo esclusivo e inscindibile al possesso della cittadinanza di uno Stato membro dell’Unione. Nell’adottare questa posizione, la Corte di giustizia, lungi dal rimettere in questione il fatto che lo status di cittadinanza europea sia destinato a divenire lo status fondamentale dei cittadini degli Stati membri, ha proprio rimarcato come il presupposto indispensabile per poter acquisire tale condizione debba essere ricercato in modo esclusivo proprio nel possesso della cittadinanza di uno Stato membro.
La Corte di giustizia ha infatti rimarcato che, in base all’art. 50, par. 3, TUE, i Trattati cessano di essere applicabili allo Stato recedente dalla data di entrata in vigore dell’accordo di recesso. Pertanto, a partire dalla data di entrata in vigore dell’Accordo sul recesso, il Regno Unito non era più uno Stato membro dell’Unione e, pertanto, i cittadini del Regno Unito sono divenuti cittadini di uno Stato terzo. La Corte di giustizia non ha approfondito l’argomento ma si è allineata pienamente alle conclusioni dell’Avvocato generale Collins[2] il quale aveva invece efficacemente posto in luce come la scelta di recedere da parte del Regno Unito ha posto in luce la volontà di quest’ultimo di non voler più (tra l’altro) istituire una cittadinanza comune a quella dei cittadini degli Stati membri dell’Unione o di creare un’unione sempre più stretta fra i popoli dell’Europa. In altre parole, poiché il Regno Unito ha volontariamente rinunciato allo status di cittadinanza europea per i suoi cittadini, questi hanno cessato di essere cittadini dell’Unione.
La perdita dello status di cittadinanza dell’Unione consegue dunque in modo automatico alla perdita dello status di cittadinanza di uno Stato membro dell’Unione. Nei brani successivi della decisione, la Corte di giustizia ha chiarito altresì che in virtù della causa che ha determinato la perdita della cittadinanza della ricorrente, ossia, il recesso dello Stato di cui possiede la cittadinanza, le autorità competenti degli Stati membri, così come i giudici di questi ultimi, non sono tenuti a procedere a un esame individuale delle conseguenze che la perdita dello status di cittadina dell’Unione comporta nei suoi confronti – così come degli altri cittadini britannici eventualmente interessati – alla luce del principio di proporzionalità. La situazione in cui si trova EP differisce infatti in modo sostanziale dalle circostanze che hanno portato la Corte di giustizia a sviluppare quella giurisprudenza ormai ben consolidata in virtù della quale gli Stati membri sono tenuti a rispettare il diritto dell’Unione allorché si trovano a prendere decisioni che incidono sullo status di cittadinanza nazionale di un individuo, per via delle conseguenze che ciò comporta su quello di cittadinanza europea[3].
EP ha perso lo status di cittadina dell’Unione per via della scelta sovrana del proprio Stato di cittadinanza di recedere da quest’ultima. Di fronte alla volontà dello Stato in questione di avvalersi della facoltà prevista dall’art. 50, par. 1, TUE, l’Unione e gli altri Stati membri non possono fare altro che limitarsi a rispettare le previsioni di tale disposizione e, decorso il termine transitorio, non applicare più allo Stato ex membro, così come ai suoi cittadini, il diritto dell’Unione.
La perdita del diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni indette nello Stato membro di residenza della persona interessata trova conferma anche dall’Accordo sul recesso, sebbene le disposizioni di quest’ultimo non spicchino per chiarezza in relazione a questo punto. L’art. 127, par. 1, lett. b), stabilisce, infatti, che nel periodo di transizione, le disposizioni di diritto primario relative al diritto di voto e di eleggibilità dei cittadini dell’Unione al Parlamento europeo e alle elezioni comunali nello Stato membro di residenza (vale a dire, gli artt. 20, par. 2, lett. b) e 22 TFUE e gli artt. 39 e 40 della Carta) non trovano applicazione al Regno Unito. Su sollecitazione della ricorrente, il giudice rimettente ha fatto però notare che il testo della disposizione non fa espresso riferimento ai cittadini britannici che hanno esercitato il diritto di soggiorno in uno Stato membro, conformemente al diritto dell’Unione, prima della fine del periodo di transizione. La Corte di giustizia, invece, ha chiarito che l’art. 127, par. 1, dell’Accordo sul recesso deve essere letto in combinato disposto con il successivo par. 6, ai sensi del quale le disposizioni di diritto dell’Unione che non trovano applicazione in base a quanto stabilito dall’art. 127, par. 1, lett. b) di tale Accordo devono essere intese nel senso che non includono il Regno Unito nel loro ambito di applicazione.
Di conseguenza, gli Stati membri, a partire dall’entrata in vigore dell’Accordo sul recesso, non sono più tenuti a considerare i cittadini britannici come cittadini di uno Stato membro ai fini dell’applicazione delle disposizioni di diritto primario relative al diritto di voto e di eleggibilità al Parlamento europeo e alle elezioni locali.
Ciò posto, anche al fine di rafforzare l’interpretazione data, la Corte di giustizia ha proseguito ribadendo come l’applicazione dell’art. 127, par. 1, lett. b) dell’Accordo sul recesso al solo territorio del Regno Unito e, quindi, ai soli cittadini degli Stati membri che risiedono in tale Stato nel periodo di transizione, avrebbe creato un’asimmetria tra i diritti conferiti da tale accordo ai cittadini del Regno Unito e ai cittadini dell’Unione contraria all’oggetto stesso dell’accordo in questione, ossia, la protezione reciproca delle due categorie di cittadini che hanno esercitato la libertà di soggiorno prima del termine del periodo transitorio.
Ugualmente, è stato escluso che le disposizioni di diritto primario in materia di diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni locali nello Stato membro di residenza rientrino nell’ambito di applicazione dell’art. 12 dell’Accordo sul recesso, in virtù del quale è vietata ogni discriminazione basata sulla nazionalità durante il periodo transitorio. Il campo di applicazione della disposizione in parola, infatti, è limitato alla parte dell’Accordo sul recesso destinata a tutelare i diritti dei cittadini dell’Unione e del Regno Unito che hanno esercitato i diritti alla libera circolazione prima della fine del periodo di transizione dai quali sono però esplicitamente esclusi i diritti di natura politica di cui ai già richiamati artt. 20, par. 2, lett. b) e 22 TFUE e gli artt. 39 e 40 della Carta.
Tutto ciò considerato, un cittadino del Regno Unito, come EP, che abbia esercitato il diritto di soggiorno in uno Stato membro conformemente al diritto dell’Unione prima della fine del periodo di transizione e che continui a soggiornarvi dopo, non può più avvalersi dei diritti di voto e di eleggibilità alle elezioni locali nello Stato membro in cui risiede previsti dal diritto dell’Unione, né avrebbe potuto cercare di far valere utilmente il divieto di discriminazione di cui all’art. 12 dell’Accordo sul recesso per rivendicare l’esercizio dei diritti suddetti nel corso del periodo di transizione. Decorso quest’ultimo, l’art. 18, primo comma e l’art. 21, primo comma, TFUE non trovano più applicazione nei confronti dei cittadini britannici residenti dell’Unione per via del venir meno del loro status di cittadini dell’Unione. Status, quest’ultimo, necessario per rientrare tra i destinatari delle disposizioni in questione.
Ciò posto, come la stessa Corte ha tenuto a precisare, ogni Stato membro resta libero di concedere, nel rispetto delle previsioni del diritto interno, i diritti di voto attivo e passivo ai cittadini di Stati terzi che risiedono nel proprio territorio.
La terza e quarta questione pregiudiziale attengono invece alla validità dell’Accordo sul recesso. Come noto, la decisione resa su rinvio pregiudiziale di validità consente alla Corte di giustizia di valutare, pronunciandosi sulla decisione che ha autorizzato la conclusione dell’accordo in questione, la compatibilità dello stesso con i Trattati e con il diritto internazionale vincolanti per l’Unione. Nel caso di specie, la Corte di giustizia ha correttamente deciso di limitare la propria risposta alla parte delle questioni pregiudiziali relative alla validità della decisione 2020/135[4] laddove l’Accordo sul recesso non conferisce il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali nello Stato membro di residenza ai cittadini britannici che hanno esercitato il diritto di soggiorno in tale Stato membro prima della fine del periodo di transizione. In sostanza, si trattava di accertare la conformità dell’Accordo in relazione agli artt. 9 TUE, 18, 20-22 TFUE e 40 della Carta, oltre che rispetto al principio di proporzionalità. In primo luogo, la Corte di giustizia ha escluso che le disposizioni summenzionate possano essere impiegate come parametro di legittimità dell’Accordo in questione atteso che le stesse si riferiscono ai cittadini dell’Unione, status che i cittadini del Regno Unito hanno perso a partire dalla data di entrata in vigore dell’Accordo medesimo.
Con riguardo invece al principio di proporzionalità, la Corte di giustizia – ricalcando le conclusioni dell’Avvocato generale Collins – ha spostato l’attenzione sull’autonomia delle istituzioni dell’Unione nella gestione delle relazioni esterne per chiarire che queste rimangono libere di concludere accordi internazionali fondati sul principio della reciprocità e dei vantaggi reciproci e che, inoltre, nessuna base giuridica o fattuale potrebbe portare a ritenere che l’Unione abbia ecceduto i limiti del suo potere discrezionale decidendo di non consentire ai cittadini britannici residenti nell’Unione di esercitare i diritti politici riservati ai soli cittadini europei.
Evidentemente, la decisione in commento, così come le conclusioni dell’Avvocato generale, ruotano attorno agli effetti definitivi che il recesso dall’Unione da parte di uno Stato produce (anche) sulla sfera giuridica dei propri cittadini. Il messaggio che la Corte di giustizia sembra voler trasmettere è chiaro: il recesso rende l’ex Stato membro uno Stato terzo senza eccezioni e, di conseguenza, i suoi cittadini perdono lo status di cittadini europei a prescindere dal fatto che questi abbiano sviluppato legami più o meno intensi con l’Unione o con uno Stato membro in particolare.
Con riguardo ai diritti di voto e di eleggibilità alle elezioni locali nello Stato membro in cui il cittadino dell’ex Stato membro risiede, nulla nel diritto primario (intendendo sia i Trattati sia la Carta) impone all’Unione di negoziare e concludere un accordo di recesso che preservi il godimento di detti diritti in capo ai cittadini dello Stato recedente. Ugualmente, nessuna norma obbliga gli Stati membri a riconoscere uno di questi diritti ai cittadini del “nuovo” Stato terzo che risiedono nei rispettivi territori. Si ritiene che queste considerazioni possano essere estese anche a tutti quei diritti fondamentali attribuiti in modo esplicito ai soli cittadini dell’Unione. Come la Brexit ha messo in luce, infatti, la tutela di questi ultimi dipenderà esclusivamente dalla volontà dell’Unione e dello Stato membro recedente di individuare specifiche previsioni nell’accordo di recesso. Di contro, si deve ritenere che le altre disposizioni in materia di diritti fondamentali contenute nella Carta e nelle altre fonti di diritto primario costituiscano un parametro di legittimità rispetto all’accordo in questione.
In conclusione, a fronte di una giurisprudenza che negli anni ha portato giustamente a ritenere che le vicende inerenti all’acquisto e alla perdita della cittadinanza nazionale siano diventate via via questioni di rilevanza “europea”; la sentenza in esame conferma invece che, a Trattati invariati, nessun dato formale o sostanziale permette di sostenere che lo status di cittadini europei stia assumendo progressivamente i contorni di uno status giuridico autonomo rispetto a quello nazionale. Al contrario, fermo restando il dovere degli Stati membri di esercitare i loro diritti interni in materia di cittadinanza nel rispetto del diritto dell’Unione, di fronte alla scelta sovrana di uno Stato membro di uscire da quest’ultima, il legame (più o meno intenso) tra il cittadino dello Stato recedente e l’Unione, dato dalla cittadinanza europea, si estingue una volta portata a compimento la procedura di recesso che rende detto Stato uno Stato terzo a tutti gli effetti.
[1] Accordo sul recesso del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord dall'Unione europea e dalla Comunità europea dell'energia atomica, 2019/C 384 I/01, GU C 384I del 12.11.2019, pagg. 1–177.
[2] Corte di giustizia, Causa C-673/20, Conclusioni dell’avvocato generale M.A. Collins, presentate il 24 febbraio 2022, ECLI:EU:C:2022:129.
[3] Segnatamente, si fa riferimento ai seguenti casi, Corte di giustizia, Causa C-135/08, Rottmann, Sentenza del 2 marzo 2010, EU:C:2010:104); Causa C-221/17, Tjebbes e a., Sentenza del 12 marzo 2019, EU:C:2019:189; Causa C-165/16, Lounes, Sentenza del 14 novembre 2017, ECLI:EU:C:2017:862.
Causa C-118/20, Wiener Landesregierung e a., Sentenza del 18 gennaio 2022, EU:C:2022:34
[4] Decisione (UE) 2020/135 del Consiglio del 30 gennaio 2020 relativa alla conclusione dell’accordo sul recesso del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord dall’Unione europea e dalla Comunità europea dell’energia atomica (Testo rilevante ai fini del SEE), GU L 29 del 31.1.2020, pagg. 1–6.