Con legge regionale n. 26 del 20 dicembre 2022, la Regione Piemonte ha apportato alcune modifiche ed integrazioni alla legge regionale n. 4 del 16 gennaio 1973, con cui si disciplina l’iniziativa popolare e degli enti locali e il referendum abrogativo e consultivo.
Segnatamente, la l.r. 26/2022 è intervenuta sul referendum consultivo nell’ambito del procedimento di variazioni territoriali dei Comuni ex art. 133 comma 2 Cost., recando due essenziali modifiche: in primo luogo, è stata introdotta la previsione secondo cui il quesito sottoposto a referendum consultivo deve essere dichiarato accolto qualora si raggiunga, in ogni comune interessato dal referendum, la maggioranza dei voti validi favorevolmente espressi, dovendosi diversamente ritenere il quesito come respinto (art. 36 comma 3)[1]. In secondo luogo, si è stabilito che il procedimento legislativo si debba ritenere concluso a fronte dell’esito sfavorevole del referendum in almeno uno dei comuni interessati (art. 38 comma 2)[2].
Come noto, l’art. 133 comma 2 Cost. conferisce alle Regioni la potestà di istituire nel proprio territorio nuovi Comuni e modificare le loro circoscrizioni e denominazioni. Tale potestà viene esercitata, come confermato fin dalla più risalente giurisprudenza costituzionale, sulla base di una espressa riserva di legge regionale che si sostanzia in una legge-provvedimento regionale caratterizzata da un aggravamento procedurale (sent. 2/2018), essendo obbligatoriamente richiesto ai Consigli regionali di anteporre all’emanazione di tale legge l’acquisizione del parere delle popolazioni interessate, quale principio “connaturato all’articolato disegno delle autonomie in senso pluralista” e diretto a tutelare “l’autonomia degli enti minori nei confronti delle stesse Regioni per evitare che queste possano addivenire a compromissioni dell’assetto preesistente senza tenere adeguato conto delle realtà locali e delle effettive esigenze delle popolazioni direttamente interessate” (cfr. sent. Corte cost. 453/1989).
Tale procedimento, solo accennato nel testo costituzionale, deve essere disciplinato a sua volta con legge regionale, in ottemperanza a quanto previsto dall’art. 15, comma 1, del d.lgs. 267/2000 (Testo Unico degli enti locali)[3]. Le Regioni hanno così anzitutto individuato quale strumento per l’acquisizione del parere delle popolazioni interessate il referendum consultivo, identificato dai giudici costituzionali come la modalità necessaria per assicurare l’assolvimento dell’obbligo di consultazione di cui all’art. 133 comma 2 Cost. (sentt. Corte cost. n. 204 del 1981, n. 107 del 1983, n. 279 del 1994, n. 94 del 2000, n. 237 del 2004 e n. 214 del 2010). Inoltre, i legislatori regionali si sono mossi nell’ampio spazio di azione loro riservato[4] e hanno offerto regolamentazioni differenziate di tali referendum consultivi, dalle quali sono anche scaturite questioni di costituzionalità e conflitti di attribuzioni tra enti che hanno toccato numerosi profili attinenti alla disciplina puntuale dell’istituto tra i quali, in particolare, quello della individuazione delle popolazioni interessate.
Vi sono stati però, come ricordato da attenta dottrina (Bin, Menegus, 2020), altri profili delle regolamentazioni regionali dei referendum consultivi che non sono giunti all’attenzione della Corte costituzionale, pur mostrando la relativa disciplina criticità in punto di legittimità costituzionale. Il riferimento è, ad esempio, alle previsioni concernenti i quorum costitutivi e deliberativi così come quelli che riguardano gli effetti che si riconducono all’espressione di voto delle popolazioni interessate dalla consultazione referendaria. Si tratta di profili che, almeno in parte, possono emergere come punti di criticità anche nelle recenti modifiche alla legislazione piemontese.
Queste ultime non toccano il tema del quorum costitutivo[5] ma incidono sia sulla determinazione del quorum deliberativo o, come affermato nella Relazione introduttiva alla l.r. n. 26/2022, su una diversa modalità di lettura dei risultati nonché sugli effetti che l’esito referendario è suscettibile di imprimere al procedimento legislativo di variazione territoriale. In particolare, la recente legge regionale, da una parte, inasprisce tale quorum e, dall’altra, identifica il voto negativo quale vero e proprio veto per la prosecuzione del procedimento legislativo di variazione territoriale. Muovendosi secondo questa duplice traiettoria, la legge piemontese – nonostante la decisione del Consiglio dei Ministri nella seduta del 9 febbraio 2023 di non impugnare la legge regionale – presenta profili di dubbia costituzionalità.
Per quel che concerne la determinazione del quorum deliberativo, la legge piemontese stabilisce che il respingimento del quesito si vada a determinare non a fronte della acquisizione della maggioranza di voti negativi e quindi guardando – come fino ad oggi avvenuto – alla maggioranza dei voti complessivamente intesa. La riforma da poco apportata statuisce, piuttosto, come il quesito debba essere dichiarato accolto qualora, in ogni comune interessato dal referendum, si raggiunga la maggioranza dei voti validi favorevolmente espressi. Il riferimento “ad ogni comune interessato” lascia pertanto inferire come sia sufficiente per decretare il respingimento del referendum che in uno dei comuni non sia raggiunta la maggioranza favorevole alla variazione. E questo avviene senza considerare le eventuali differenze in merito alla consistenza demografica ed elettorale dei Comuni interessati. In questo modo, si riducono potenzialmente le possibilità di accoglimento del quesito referendario, lasciandosi la decisione sul non accoglimento ad uno solo dei comuni interessati, finanche al Comune di più contenute dimensioni ed espressione di una parte esigua di coloro che siano chiamati al voto. Se questo meccanismo potrebbe solleverebbe minori problematiche laddove nella variazione territoriale siano coinvolti solo due Comuni di analoga consistenza demografica, diversa sarebbe la situazione qualora i Comuni implicati fossero di dimensioni notevolmente diverse e magari in numero maggiore a due. In simili evenienze, si sarebbe forse indotti a prospettare dubbi di costituzionalità con riferimento all’eguaglianza del voto dei cittadini chiamati alle urne, a fronte di una potenziale diseguale forza attribuibile ai voti espressi.
Tale previsione diviene ancora più problematica se letta in combinato con la seconda riforma apportata dalla l.r. 26/2022, in virtù della quale l’esito sfavorevole in almeno uno dei comuni interessati porta alla conclusione del procedimento legislativo.
Si tratta di una profonda differenza rispetto alle previgenti disposizioni, già in parte modificate con l.r. n. 10 del 2009. In quell’anno, infatti, si era posto il tema degli effetti vincolanti dell’esito della consultazione referendaria, alla luce di quelle che erano le disposizioni racchiuse nel testo originario della legge del 1973. Nel testo originario, infatti, se in caso di esito negativo della consultazione referendaria, al Presidente della Giunta era riconosciuta facoltà di presentare comunque al Consiglio un disegno di legge (art. 38 comma 2), nell’eventualità di esito favorevole della consultazione referendaria si affermava diversamente che egli era tenuto a proporre al Consiglio regionale un disegno di legge. Nel 2009 si è dunque deciso di sopprimere le parole “è tenuto”, smussando l’obbligatorietà che caratterizzava l’azione del Presidente di Giunta e che rendeva vincolante l’esito positivo del referendum. La decisione di ricondurre le azioni del Presidente di Giunta all’ambito del possibile piuttosto che a quello del doveroso, aiutava infatti a smorzare l’impiego di termini quali «accolto» e «respinto», a cui poteva essere ricollegato “un significato normativo volto a riconoscere una qualche forma di efficacia vincolante degli esiti della consultazione referendaria sul proseguo della procedura” (Medda, 2019).
Le modifiche introdotte con la l.r. 26/2022 rimettono però di nuovo in discussione il tema degli effetti vincolanti dell’esito del referendum. Esse eliminano la facoltà del Presidente di dare impulso all’iter legislativo regionale a seguito di esito negativo e, di conseguenza, sopprimono la valutazione discrezionale del Consiglio rispetto alla possibilità di proseguire nella decisione di dare attuazione alla variazione territoriale. Una inibizione, lo si rammenti, determinata vieppiù da un voto negativo non cumulativamente conteggiato sulla base della totalità dei voti espressi.
Si tratta, come anche apertamente affermato nella relazione introduttiva al progetto di legge, di una volontà di auto-limitazione dei poteri del Consiglio regionale che, secondo quest’ultimo, rientra nella propria sfera di competenza, a fortiori essendo motivata dall’obiettivo di valorizzare la volontà della popolazione formalizzata da un risultato importante in termini di rigetto, la quale deve divenire “un elemento prevalente rispetto alle altre valutazioni da compiere da parte della Regione” (Relazione illustrativa al progetto di legge). Il che potrebbe trovare una giustificazione, sul piano politico, nella volontà di assecondare maggiormente il parere espresso dai territori e dalla cittadinanza che, anche in Piemonte, così come in altre parti del territorio nazionale, ha iniziato a dare segnali di “insofferenza” e di “stanchezza”, messe in luce da alcuni commentatori (Medda, 2019), nei confronti delle più recenti proposte di variazione territoriale e, specialmente, di aggregazione delle realtà comunali. Soprattutto in Piemonte, nelle consultazioni referendarie indette tra il 2016 e il 2018, si è registrata un’alta percentuale di voti contrari che talvolta hanno prevalso nei singoli comuni e che, nel caso dell’istituzione del Comune di Gattico-Veruno, sono persino prevalsi nel computo complessivo dei voti. Ciononostante, il precedente Consiglio regionale aveva comunque deciso di continuare l’iter, portando a compimento la variazione territoriale. L’attuale Consiglio sembra voler assumere una linea molto diversa, rendendo prevalente la volontà dei cittadini rispetto agli altri elementi di ponderazione che possono confluire sulla decisione consiliare di variazione territoriale.
Nella versione proposta alla discussione in Consiglio regionale, questa volontà veniva però perseguita secondo strade in parte diverse da quelle poi emerse all’esito del dibattito e dell’iter legislativo di approvazione della l.r. 26/2022. La proposta presentata, infatti, si ispirava chiaramente alla legislazione della Regione Emilia-Romagna ossia alla l.r. 25 del 1996 s.m.i. L’art. 12 di tale legge prevede infatti tre commi (da 9-ter a 9-quinquies[6]) nei quali si afferma: “Il procedimento legislativo si conclude senza passare all’esame degli articoli del progetto di legge quando i voti complessivi sul referendum per la fusione sono contrari alla fusione stessa e contestualmente l’esito è sfavorevole almeno nella metà dei Comuni interessati. In tutti gli altri casi l’Assemblea legislativa può procedere immediatamente all’esame del progetto di legge di fusione tranne quando: a) i voti complessivi sul referendum sono favorevoli alla fusione ma nella maggioranza dei Comuni prevale il voto contrario; b) i voti complessivi sul referendum sono favorevoli alla fusione ma il numero dei Comuni favorevoli è uguale a quello dei contrari; c) i voti complessivi sul referendum sono sfavorevoli alla fusione ma nella maggioranza dei Comuni prevale il voto favorevole. Nelle ipotesi di cui alle lettere a), b) e c) del comma 9 quater l’Assemblea legislativa può approvare la legge solo dopo aver preventivamente acquisito il parere dei Consigli dei Comuni in cui l’esito del referendum è stato contrario alla fusione. I Consigli comunali si esprimono entro sessanta giorni decorrenti dalla ricezione della richiesta. Decorso tale termine si prescinde dall’acquisizione del parere. I termini di cui all’articolo 13 comma 2 per la deliberazione definitiva sul progetto di legge si interrompono per il tempo necessario alla acquisizione del suddetto parere o fino alla scadenza del sessantesimo giorno”.
Mutuando almeno in parte questa disciplina, la proposta di legge piemontese disponeva un ulteriore aggravio procedurale nel senso che, a fronte di un esito negativo del referendum, si chiamavano in causa i Consigli comunali interessati, ai quali veniva richiesto di pronunciarsi con maggioranza assoluta sulla volontà o meno di proseguire il procedimento legislativo. Parimenti, si statuiva la conclusione automatica dell’iter legis alla presenza di due concomitanti condizioni ovverosia qualora la somma dei voti validi negativi complessivamente considerati fosse maggiore della somma dei voti validi positivi e in caso di esito sfavorevole in almeno la metà dei comuni interessati.
Nel corso del dibattito, la proposta è stata depurata della prima previsione tanto che il testo finale espunge il passaggio ai Consigli comunali mentre prevede un “ammorbidimento” delle condizioni che determinano l’automatica sospensione del procedimento legislativo di variazione territoriale.
Così delineate, le due disposizioni definitivamente introdotte aprono a dubbi di costituzionalità ulteriori rispetto a quelli già accennati con riferimento al diritto di voto, apparendo idonee a mettere in discussione la natura consultiva del referendum e la ratio sottesa a tale natura. Per costante giurisprudenza, infatti, i referendum consultivi nell’ambito dei procedimenti di variazioni territoriali sono considerati di natura meramente consultiva. Come sottolineato nella sent. n. 2 del 2018 della Corte costituzionale, “la legge di variazione circoscrizionale ex art. 133, secondo comma, Cost. non è in alcun modo paragonabile a una legge di mera approvazione di un atto amministrativo. Non si è, infatti, in presenza di una legge-provvedimento di ratifica dell’esito del referendum, ma, come si evince dalla natura consultiva del referendum medesimo (sentenze n. 171 del 2014, n. 214 del 2010, n. 204 del 1981), si è al cospetto di una scelta politica del Consiglio regionale, il quale deve tenere conto della volontà espressa dalle popolazioni interessate, «componendo nella propria conclusiva valutazione discrezionale gli interessi, sottesi alle valutazioni, eventualmente contrastanti, emersi nella consultazione»”. Ne discende pertanto, prosegue la Corte, come l’esito della consultazione referendaria non possa essere considerato contenuto della legge regionale di variazione territoriale sicché tale esito non potrà vincolare costituzionalmente la Regione e il suo Consiglio. L’esito del voto potrà dunque andare a integrare l’insieme degli elementi che consentiranno di indirizzare la discrezionalità dell’organo legislativo regionale verso la variazione o meno, potendo quindi la volontà dei cittadini coinvolti, la cui espressione è costituzionalmente necessaria ma non vincolante, esercitare un peso sul piano politico.
[1] La precedente versione dell’art. 36 comma 3 così recitava: “Il quesito sottoposto a referendum consultivo è dichiarato accolto quando la somma dei voti validi affermativi al quesito sia maggiore rispetto alla somma dei voti validi negativi espressi dagli elettori votanti nei comuni o nel comune o nell’ambito territoriale, in cui il referendum consultivo è stato indetto; altrimenti è dichiarato respinto”.
[2] La precedente versione dell’art. 38 comma 2 statuiva che: “Entro lo stesso termine, se l’esito è stato negativo il Presidente della Giunta ha facoltà di proporre egualmente al Consiglio regionale di procedere all'esame del disegno di legge inerente il quesito sottoposto a referendum”.
[3] Ai sensi dell’art. 15 TUEL, “A norma degli articoli 117 e 133 della Costituzione, le regioni possono modificare le circoscrizioni territoriali dei comuni sentite le popolazioni interessate, nelle forme previste dalla legge regionale”.
[4] Uno spazio di azione che comprende la possibilità di disciplinare il referendum consultivo e, più in generale, le diverse fasi in cui si articola la procedura di variazione territoriale pur dentro la perimetrazione costituzionale di cui all’art. 133 Cost.)
[5] Nella legislazione piemontese, a differenza di quanto avviene in altre Regioni, non è infatti previsto un quorum costitutivo per i referendum consultivi che si tengono nell’ambito delle procedure di variazione territoriale, se non con un’unica eccezione ovverosia nei soli casi in cui la popolazione interessata non coincida con l’intera popolazione comunale. In tali evenienze, occorrerà infatti accertare la partecipazione alla votazione della maggioranza degli aventi diritto (si ricordi che questo unico quorum costitutivo è stato introdotto nel 2009 con l’integrazione del comma 3-bis all’art. 36).
[6] Questi commi sono stati inseriti con l.r. n. 15 del 2016 che non è stata oggetto di impugnativa avanti alla Corte costituzionale.