Le Rubriche dell'Osservatorio

Causa C-673/16 – Il matrimonio tra persone dello stesso sesso contratto in uno Stato UE va riconosciuto in tutti gli altri Stati membri al fine di garantire la libera circolazione e soggiorno del cittadino dell’Unione (2/2018)

Sentenza della Corte di giustizia (Grande sezione) del 5 giugno 2018, Coman, ECLI:EU:C:2018:3851

Nella sentenza Coman, la Corte di giustizia si è pronunciata per la prima volta circa la possibilità per un cittadino dell’Unione di esercitare il diritto al ricongiungimento familiare con il proprio coniuge, cittadino di Paese terzo, nell’ambito di un matrimonio tra persone dello stesso sesso.

In particolare, il caso riguardava un cittadino dell’Unione che, dopo aver esercitato il proprio diritto di soggiorno in un altro Stato dell’Unione, aveva fatto ritorno nello Stato membro della propria cittadinanza, nel quale non è riconosciuto il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Con l’obiettivo di assicurare la libera circolazione dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari, eventualmente cittadini di Paesi terzi, la Corte ha esteso l’ambito di applicazione dell’art. 21, par. 1 TFUE anche a quelle ipotesi in cui il coniuge del cittadino dell’Unione (in ipotesi, cittadino di un Paese terzo) sia dello stesso sessoanche se il matrimonio contratto legalmente nello Stato membro ospitante non sia riconosciuto nello Stato membro di origine del cittadino dell’UnioneLa sentenza ha origine dal primo rinvio pregiudiziale rivolto alla Corte di giustizia dalla Corte costituzionale rumena.

In principio, il diritto dell’Unione non trova applicazione nel caso in cui il cittadino di uno Stato membro non abbia mai soggiornato in uno Stato dell’Unione diverso da quello della propria cittadinanza, con la conseguenza che tale cittadino non potrà invocare il diritto al ricongiungimento familiare con il coniuge, eventualmente cittadino di Paese terzo, sulla base del diritto dell’Unione2, in particolare della direttiva 2004/383. Ove, invece, il cittadino dell’Unione abbia esercitato il suo diritto a soggiornare sul territorio di un altro Stato membro, la sua situazione rileverà per il diritto dell’Unione, sia che si trovi ancora nello Stato ospitante, sia che ne abbia acquisito la cittadinanza4, sia che abbia fatto ritorno nello Stato membro di origine5. Nel primo caso, il diritto di soggiorno derivato in favore del familiare del cittadino dell’Unione troverà il proprio fondamento nella direttiva 2004/38, in quanto presupposto necessario per la sua applicazione è che il cittadino dell’Unione si trovi in uno Stato membro diverso da quello della propria cittadinanza; nelle altre due ipotesi, la Corte ha affermato che tale diritto potrà essere riconosciuto al familiare sulla base dell’art. 21 par. 1 TFUE. Con la sentenza Coman, il giudice dell’Unione ha ulteriormente precisato che l’art. 21 par. 1 TFUE può essere invocato a fondamento del diritto di soggiorno derivato del cittadino di Paese terzo che sia coniuge nell’ambito di un matrimonio tra persone dello stesso sesso e anche se lo Stato membro di origine del cittadino dell’Unione - ove quest’ultimo e il suo familiare intendono stabilirsi - non riconosce il matrimonio legalmente contratto nello Stato membro ospitante.

I fatti all’origine della pronuncia riguardavano il sig. Coman, cittadino rumeno e americano, il quale, dopo aver conosciuto il sig. Hamilton, cittadino americano, e convissuto con lui per alcuni anni a New York, aveva fatto ritorno in Europa, stabilendosi in Belgio a fini lavorativi. Durante tale periodo, il sig. Coman aveva contratto matrimonio a Bruxelles con il sig. Hamilton, che nel frattempo continuava a vivere a New York. Al termine dell’attività lavorativa del sig. Coman, i coniugi avevano richiesto informazioni presso le autorità rumene circa la procedura e le condizioni in base alle quali il sig. Hamilton avrebbe potuto ottenere, in qualità di familiare di un cittadino dell’Unione, il diritto di soggiornare legalmente in Romania, paese di origine del sig. Coman, per un periodo superiore a tre mesi. A fronte di tale richiesta, le autorità competenti avevano informato i coniugi che il sig. Hamilton “godeva soltanto di un diritto di soggiorno di tre mesi, giacché, trattandosi di persone dello stesso sesso, il matrimonio non è riconosciuto, conformemente al codice civile, e che, inoltre, non può essere concessa la proroga del diritto di soggiorno temporaneo del sig. Hamilton in Romania a titolo di ricongiungimento familiare” (par. 12). Attraverso le vie giurisdizionali interne, il caso giungeva dinanzi alla Corte costituzionale rumena. Questa, adita per la presunta violazione delle disposizioni costituzionali relative al diritto alla vita privata e familiare nonché al principio di uguaglianza, decideva di sollevare alcune questioni in via pregiudiziale alla Corte di giustizia.  

Il giudice dell’Unione, prima di procedere all’esame delle questioni pregiudiziali, ha ritenuto utile formulare alcune osservazioni preliminari, richiamando la sua costante giurisprudenza circa il diverso ambito applicativo della direttiva 2004/38 e dell’art. 21, par. 1 TFUE. In particolare, ha precisato il rapporto tra le due fonti, affermando che la direttiva “mira ad agevolare l’esercizio del diritto primario e individuale di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, conferito direttamente ai cittadini dell’Unione dall’articolo 21, paragrafo 1, TFUE, e […] ha segnatamente l’obiettivo di rafforzare tale diritto” (par. 18). La direttiva 2004/38 “disciplina unicamente le condizioni di ingresso e di soggiorno di un cittadino dell’Unione negli Stati membri diversi da quello di cui egli ha la cittadinanza e non consente di fondare un diritto di soggiorno derivato a favore dei cittadini di un Paese terzo, familiari di un cittadino dell’Unione nello Stato membro di cui tale cittadino possiede la cittadinanza” (par. 20). Pertanto, secondo la Corte, la direttiva 2004/38 non poteva fondare un diritto di soggiorno derivato a favore del sig. Hamilton in Romania, Stato di origine del sig. Coman. 

La Corte ha tuttavia proseguito ricordando che in taluni casi il suddetto diritto può discendere dall’art. 21, par. 1 TFUE: infatti, “quando, nel corso di un soggiorno effettivo del cittadino dell’Unione in uno Stato membro diverso da quello di cui ha la cittadinanza, ai sensi e nel rispetto delle condizioni poste dalla direttiva 2004/38, si sia sviluppata o consolidata una vita familiare in quest’ultimo Stato membro, l’effetto utile dei diritti che al cittadino dell’Unione interessato derivano dall’articolo 21, par. 1 TFUE, impone che la vita familiare che tale cittadino abbia condotto nello Stato membro suddetto possa proseguire al suo ritorno nello Stato membro di cui possiede la cittadinanza, grazie alla concessione di un diritto di soggiorno derivato al familiare interessato, cittadino di uno Stato terzo” (par. 24, corsivo aggiunto). In mancanza di tale diritto, infatti, il cittadino dell’Unione potrebbe essere dissuaso a lasciare il proprio Stato di origine e ad avvalersi del suo diritto di soggiorno in un altro Stato membro, “per il fatto di non avere la certezza di poter proseguire nello Stato membro di origine una vita familiare in tal modo sviluppata o consolidata nello Stato membro ospitante” (ibid.). I fatti oggetto della causa rientravano nell’ambito applicativo dell’art. 21, par. 1 TFUE: il sig. Coman, durante il suo soggiorno effettivo in Belgio, aveva sviluppato o consolidato una vita familiare con il sig. Hamilton. Pertanto, secondo la Corte, riconosciuto il diritto al soggiorno derivato in capo al familiare, le relative condizioni di concessione di tale diritto “non devono essere più rigorose di quelle previste dalla direttiva 2004/38 per la concessione di un simile diritto di soggiorno a un cittadino di uno Stato terzo, familiare di un cittadino dell’Unione che abbia esercitato il proprio diritto di libera circolazione stabilendosi in uno Stato membro diverso da quello di cui possiede la cittadinanza” (par. 25). Secondo la Corte, quindi, alla situazione oggetto della causa doveva essere applicata per analogia la direttiva 2004/38.

Riguardo la prima questione pregiudiziale, il giudice nazionale chiedeva se il diritto dell’Unione, in particolare l’art. 21, par. 1 TFUE, osta a che le autorità competenti dello Stato membro di cui il cittadino dell’Unione ha la cittadinanza rifiutino di concedere un diritto di soggiorno derivato al cittadino di uno Stato terzo, che abbia consolidato una vita familiare e contratto legalmente matrimonio con il cittadino dell’Unione in un altro Stato membro, per il solo fatto che lo Stato membro di origine non prevede il matrimonio tra persone dello stesso sesso. La Corte di giustizia ha innanzitutto verificato se il coniuge, cittadino di Paese terzo, rientra nella nozione di “familiare” ai sensi della direttiva, “applicabile per analogia in circostanze come quelle di cui al procedimento principale” (par.33). Richiamando l’art. 2, punto 2, lett. a) della direttiva, che individua espressamente il “coniuge” come “familiare”, ha sottolineato come tale nozione “vale a designare una persona unita ad un’altra da vincolo matrimoniale” (par. 34). Inoltre, essa “è neutra dal punto di vista del genere e può comprendere quindi il coniuge dello stesso sesso del cittadino dell’Unione” (par. 35). A tale proposito, “mentre per determinare la qualificazione di “familiare” di un partner con cui il cittadino dell’Unione ha contratto un’unione registrata sulla base della legislazione di uno Stato membro” (par. 36) la direttiva rinvia alle condizioni previste dalla legislazione pertinente dello Stato membro in cui tale cittadino intende recarsi o soggiornare, la stessa direttiva “non contiene, invece, un siffatto rinvio per quanto riguarda la nozione di “coniuge” ai sensi di detta direttiva (ibid.). Secondo la Corte di giustizia, ne consegue “che uno Stato membro non può invocare la propria normativa nazionale per opporsi al riconoscimento sul proprio territorio, ai soli fini della concessione di un diritto di soggiorno derivato a un cittadino di uno Stato terzo, del matrimonio da questo contratto con un cittadino dell’Unione dello stesso sesso in un altro Stato membro in conformità della normativa di quest’ultimo” (par. 36).

Sebbene lo stato civile e le norme relative al matrimonio rientrino nella competenza degli Stati membri – i quali sono “dunque liberi di prevedere o meno il matrimonio tra persone del medesimo sesso” (par. 37) – essi, “nell’esercizio della suddetta competenza, devono rispettare il diritto dell’Unione e, in particolare, le disposizioni del Trattato relative alla libertà riconosciuta a ogni cittadino dell’Unione di circolare e soggiornare nel territorio degli Stati membri” (par. 38). Pertanto, secondo la Corte, “lasciare agli Stati membri la possibilità di concedere o negare l’ingresso e il soggiorno nel proprio territorio a un cittadino di uno Stato terzo, che abbia contratto matrimonio con un cittadino dell’Unione dello stesso sesso in uno Stato membro, conformemente alla normativa di quest’ultimo, a seconda che le disposizioni del diritto nazionale prevedano o meno il matrimonio tra persone dello stesso sesso, avrebbe come conseguenza che la libertà di circolazione dei cittadini dell’Unione, che abbiano già esercitato la libertà in discorso, varierebbe da uno Stato membro all’altro, in funzione di tali disposizioni di diritto nazionale” (par. 39). In questo caso, ne deriverebbe un’interpretazione restrittiva delle disposizioni della direttiva 2004/38, applicabili per analogia, che sarebbero private del loro effetto utile. In base a tali considerazioni, il giudice dell’Unione ha ritenuto che “il rifiuto opposto dalle autorità di uno Stato membro di riconoscere, ai soli fini della concessione di un diritto di soggiorno derivato a un cittadino di uno Stato terzo, il matrimonio di quest’ultimo con un cittadino dell’Unione dello stesso sesso, cittadino di tale Stato membro, contratto durante il loro soggiorno effettivo in un altro Stato membro conformemente alla legislazione di quest’ultimo Stato membro, è atto ad ostacolare l’esercizio del diritto di detto cittadino dell’Unione, sancito dall’art. 21, par. 1, TFUE, di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri” (par. 40). Il cittadino dell’Unione non può infatti vedersi privato della possibilità di tornare nel proprio Stato di origine, accompagnato dal coniuge. 

Questa conclusione tuttavia non esclude che una limitazione alla libertà di circolazione delle persone – indipendentemente dalla loro cittadinanza –possa essere giustificata sulla base di “considerazioni oggettive di interesse generale [e quando] è proporzionata allo scopo legittimamente perseguito dal diritto nazionale” (par. 41). Da un lato, “la misura è proporzionata quando è idonea a realizzare l’obiettivo perseguito, ma al contempo non va oltre quanto necessario per il suo raggiungimento” (ibid.). Dall’altro lato, per quanto riguarda i motivi di interesse generale, “siffatta restrizione sarebbe giustificata da motivi connessi all’ordine pubblico e all’identità nazionale, di cui all’art. 4, par. 2 TUE” (par. 42). Quest’ultima disposizione recita, infatti, che “l’Unione rispetta l’identità nazionale dei suoi Stati membri, insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale” (par. 43). Quanto all’ordine pubblico, la Corte ha dichiarato in più occasioni che tale nozione, rilevando come “giustificazione di una deroga a una libertà fondamentale, dev’essere intesa in senso restrittivo, di guisa che la sua portata non può essere determinata unilateralmente da ciascuno Stato membro senza il controllo delle istituzioni dell’Unione” (par. 44); pertanto, “l’ordine pubblico può essere invocato soltanto in caso di minaccia reale e sufficientemente grave ad uno degli interessi fondamentali della società” (ibid.). A tal riguardo, la Corte ha espressamente precisato che “l’obbligo per uno Stato membro di riconoscere un matrimonio tra persone dello stesso sesso contratto in un altro Stato membro conformemente alla normativa di quest’ultimo, ai soli fini della concessione di un diritto di soggiorno derivato a un cittadino di uno Stato terzo, non pregiudica l’istituto del matrimonio in tale primo Stato membro”, il quale rientra nella sua competenza normativa (par. 45). Pertanto, lo Stato membro in questione non ha un obbligo di prevedere, nella normativa nazionale, “l’istituto del matrimonio tra persone dello stesso sesso” (ibid.), ma ha un obbligo “al riconoscimento di siffatti matrimoni, contratti in un altro Stato membro in conformità della normativa di quest’ultimo, e ciò unicamente ai fini dell’esercizio dei diritti conferiti a tali persone dal diritto dell’Unione” (ibid.). Pertanto, “un simile obbligo di riconoscimento ai soli fini della concessione di un diritto di soggiorno derivato a un cittadino di uno Stato terzo non attenta all’identità nazionale né minaccia l’ordine pubblico dello Stato membro interessato” (par. 46).

Infine, la Corte ha preso in esame il requisito secondo cui la normativa nazionale “idonea ad ostacolare l’esercizio della libera circolazione delle persone” (par. 47) può essere giustificata “solo se è conforme ai diritti fondamentali sanciti dalla Carta [dei diritti fondamentali dell’Unione europea], di cui la Corte garantisce il rispetto” (ibid.). Richiamando l’art. 52, par. 3, della Carta e la relativa spiegazione, la Corte ha sottolineato che “i diritti garantiti dall’art. 7 della medesima hanno lo stesso significato e la stessa portata di quelli garantiti dall’art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo” (par. 49), come interpretati dalla Corte EDU.  A tale proposito, il giudice dell’Unione, richiamando la giurisprudenza rilevante della Corte EDU, ha rilevato che “la relazione che lega una coppia omosessuale può rientrare nella nozione di «vita privata», nonché in quella di «vita familiare», al pari di una relazione che lega una coppia di sesso opposto che si trovi nella stessa situazione” (par. 50) e, di conseguenza, ha escluso la possibilità di giustificare una misura nazionale come quella in causa alla luce dei diritti fondamentali garantiti dal diritto UE.        

Alla luce di tali considerazioni, la Corte ha pertanto ritenuto che “l’art. 21, par. 1 TFUE deve essere interpretato nel senso che osta a che le autorità competenti dello Stato membro di cui il cittadino dell’Unione ha la cittadinanza rifiutino di concedere un diritto di soggiorno sul territorio di detto Stato membro al suddetto cittadino di Stato terzo, per il fatto che l’ordinamento di tale Stato membro non prevede il matrimonio tra persone dello stesso sesso” (par. 51).              

La seconda questione pregiudiziale richiedeva il giudice dell’Unione di chiarire se “l’art. 21, par. 1, TFUE [implica] che, in circostanze come quelle di cui al procedimento principale, il cittadino di uno Stato terzo, dello stesso sesso del cittadino dell’Unione, che abbia contratto matrimonio con quest’ultimo in uno Stato membro conformemente alla sua normativa, disponga di un diritto di soggiorno per un periodo superiore a tre mesi nel territorio dello Stato membro di cui il cittadino dell’Unione ha la cittadinanza” (par. 52). La Corte, richiamando quanto già affermato, ha ribadito che, nel caso in cui un cittadino dell’Unione abbia sviluppato o consolidato la propria vita familiare durante il “soggiorno effettivo (…) in un altro Stato membro ospitante diverso da quello di cui egli abbia la cittadinanza (…), per preservare l’effetto utile dei diritti che [all’] interessato derivano dall’art. 21, par. 1 TFUE è necessario che la vita familiare che il cittadino di cui trattasi ha condotto in tale Stato membro possa proseguire al suo ritorno” (ibid.)  Le condizioni per la concessione di tale diritto non devono essere più rigorose di quelle previste dalla direttiva 2004/38. Pertanto, secondo la Corte, l’art. 21 par. 1 TFUE deve essere interpretato nel senso che, “in circostanze come quelle di cui al procedimento principale, il cittadino di uno Stato terzo, dello stesso sesso del cittadino dell’Unione, che abbia contratto matrimonio con quest’ultimo in uno Stato membro conformemente alla sua normativa, dispone di un diritto di soggiorno superiore a tre mesi nel territorio dello Stato membro di cui il cittadino dell’Unione ha la cittadinanza” (par. 56). 

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