Giurisprudenza costituzionale

È costituzionalmente illegittimo l’art. 18 della l. n. 354 del 1975, nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa a svolgere i colloqui (1/2024)

Titolo completo "È costituzionalmente illegittimo l’art. 18 della l. n. 354 del 1975, nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa a svolgere i colloqui con il coniuge o la persona alla quale è unita civilmente o con la quale stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né ragioni giudiziarie"

Sent. n. 10/2024 – giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale

Deposito del 26 gennaio 2024 – Pubblicazione in G.U. del 31/01/2024, n. 5

Motivo della segnalazione

Con la sentenza n. 10 del 2024 la Corte costituzionale torna a occuparsi di una questione di legittimità della disposizione dell’ordinamento penitenziario (l. n. 354 del 1975) che impone lo svolgimento dei colloqui con il coniuge “a vista” del personale di custodia, impedendo di fatto l’intimità della relazione affettiva. La Consulta, investita in passato di analoga questione, ne aveva dichiarato l’inammissibilità con la sentenza n. 301 del 2012, sottolineando l’incidenza del proprio intervento sulla discrezionalità del legislatore e il vuoto normativo nel quale si sarebbe collocata una eventuale pronuncia ablativa.

Nel caso odierne, il Magistrato di sorveglianza di Spoleto dubita della legittimità costituzionale dell’art. 18 ord. pen., «nella parte in cui non prevede che alla persona detenuta sia consentito, quando non ostino ragioni di sicurezza, di svolgere colloqui intimi, anche a carattere sessuale, con la persona convivente non detenuta, senza che sia imposto il controllo a vista da parte del personale di custodia». Secondo il rimettente, infatti, la previsione normativa comporterebbe la preclusione per il detenuto di coltivare una relazione affettiva in condizioni di intimità, la quale si traduce in un implicito divieto a esercitare l’affettività in modo riservato.

Ciò si porrebbe in contrasto con l’art. 2 Cost., che tutela la libertà di espressione della affettività, anche nella sua componente sessuale; con l’art. 3 Cost., per l’irragionevole carattere assoluto della prescrizione; con l’art. 13 Cost., in quanto la forzata astinenza dai rapporti sessuali appare una irragionevole ulteriore limitazione della libertà personale del detenuto; con l’art. 27, comma 3, Cost., in quanto si tratta di misura che contrasta con il fine rieducativo della pena; con gli artt. 29, 30, 31 e 32 Cost., in quanto incide negativamente sui rapporti familiari e sulla salute del detenuto; e, indirettamente, con l’art. 117, comma 1, Cost., per violazione degli artt. 3 e 8 CEDU.

Già si è accennato alla circostanza che analoga questione era stata dichiarata inammissibile dalla Corte con sentenza n. 301 del 2012, la quale aveva sottolineato come si trattasse di una materia rimessa al bilanciamento e alla discrezionalità del legislatore, tuttavia, in quella sede non aveva mancato di segnalare a quest’ultimo che quello dell’affettività carceraria era un tema degno della massima considerazione.

Nella sentenza in epigrafe, invece, la Corte rileva che il quadro normativo sia considerevolmente mutato rispetto al 2012, sia per la nuova disciplina, dettata con l. n. 76 del 2016, che ha equiparato i diritti delle coppie di fatto a quelli delle coppie unite civilmente o in matrimonio, sia per una serie di disposizioni in tema di colloqui in carcere che mirano a favorire maggiormente la riservatezza.

Dopo aver rilevato la corretta interpretazione del Giudice rimettente, il quale ha ritenuto che non potessero essere soddisfatte le medesime esigenze di tutela dell’affettività mediante la concessione dei permessi-premio, per l’accesso ai quali la legge fissa precisi presupposti, la Corte ritiene che non siano più sussistenti le ragioni che portarono in passato alla declaratoria di inammissibilità e fissa il nucleo di principio attorno a cui ruota la decisione di accoglimento.

Infatti, afferma che «l’ordinamento giuridico tutela le relazioni affettive della persona nelle formazioni sociali in cui esse si esprimono, riconoscendo ai soggetti legati dalle relazioni medesime la libertà di vivere pienamente il sentimento di affetto che ne costituisce l’essenza.

Lo stato di detenzione può incidere sui termini e sulle modalità di esercizio di questa libertà, ma non può annullarla in radice, con una previsione astratta e generalizzata, insensibile alle condizioni individuali della persona detenuta e alle specifiche prospettive del suo rientro in società».

La prescrizione dell’art. 18 ord. pen., appare inderogabile e, quindi, limitativa anche per i colloqui intrattenuti con il coniuge. Il controllo a vista, inoltre, comprimerebbe lo spazio di espressione dell’affettività, anche volendo prescindere dalle limitazioni che riguardano più specificamente la sfera sessuale.

Non è casuale, secondo la Corte, che lo stesso ordinamento penitenziario sia improntato ai principi di un trattamento penitenziario conforme al senso di umanità e di dignità della persona, nonché adeguato alle specifiche condizioni degli interessati; oltre a non poter tollerare restrizioni che non siano assolutamente necessarie per ragioni legate al mantenimento dell’ordine, della disciplina dei detenuti o indispensabili a fini giudiziari (art. 1, l. n. 354 del 1975).

Una prescrizione inderogabile del controllo a vista, se posta in termini assoluti, si traduce in un irragionevole e sproporzionato sacrificio della dignità della persona, in contrasto con l’art. 3 Cost.; irragionevolezza per di più aggravata dalla circostanza che la misura è in grado, specularmente, di produrre un effetto limitativo anche su una persona (il/la partener del/della detenuto/a) totalmente estranea alla vicenda penitenziaria.

L’impossibilità per il detenuto di esprimere una normale affettività familiare, si traduce in un pregiudizio che intacca la propria relazionalità, in antitesi con il fine rieducativo che la pena dovrebbe perseguire ai sensi dell’art. 27, comma 3, Cost.

Pur non essendo di per sé contrastante con le prescrizioni della CEDU la previsione di limiti alla riservatezza dei colloqui carcerari, dette misure devono essere frutto di un adeguato bilanciamento da parte del legislatore, ragion per cui sarebbero illegittime quelle prescrizioni connotate da inderogabilità e assolutezza (come quella oggetto della sentenza in commento).

È significativo il passaggio in cui la Corte, consapevole dell’impatto concreto che la propria decisione avrà sulla gestione degli istituti penitenziari, “invita” gli organi coinvolti (incluso il legislatore) a tener conto delle particolare esigenze legate alla corretta attuazione della decisione, considerando quegli elementi che reputa imprescindibili per lo svolgimento di una piena affettività (in particolare nei parr. 6.1.1. ss. Cons. diritto).

Accolta la questione prospettata dal Magistrato di sorveglianza, la Corte fissa altresì i limiti dell’effetto ablativo della propria decisione. Essa, infatti, non si traduce in un’indiscriminata rimozione della misura che impone il controllo a vista dei colloqui con i familiari da parte degli agenti di custodia, il controllo potrà essere mantenuto quando a richiederlo saranno ragioni legate al mantenimento dell’ordine, della disciplina o motivi di carattere giudiziario; tenuto conto anche della condotta complessiva del detenuto e dei precedenti disciplinari.

In secondo luogo, la rimozione della prescrizione inderogabile dell’assistenza ai colloqui del personale di custodia vale con esclusivo riferimento al regime carcerario di media sicurezza e non anche in relazione ai c.d. regimi speciali – quale quello regolamentato dall’art. 41-bis ord. pen. – per i quali è prevista una ulteriore disciplina derogatoria, che consente anche il controllo auditivo dei colloqui, giustificata dalla particolarità del regime cui sono sottoposti i detenuti che hanno commesso specifici reati.

In conclusione, va segnalato l’inciso sul rispetto della discrezionalità del legislatore, ribadito dalla Corte, la quale ritiene che la sentenza lasci impregiudicata la possibilità di una diversa disciplina della materia, purché sia idonea a garantire l’esercizio dell’affettività dei detenuti secondo quanto esplicitamente enunciato nella sentenza n. 10/2024.

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