Sent. n. 22/2024 - giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale
Deposito del 22/02/2024 – Pubblicazione in G.U. 28/02/2024, n. 9
Motivo della segnalazione
Con la sentenza in commento la Consulta si esprime in merito ad un giudizio in via incidentale, promosso dalla Corte di cassazione, sezione lavoro, in riferimento all’art. 76 della Costituzione, dell’art. 2, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), censurato per difformità rispetto al criterio di delega dettato dall’art. 1, comma 7, lettera c), della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro).
Dal punto di vista delle fonti, dunque, la Corte torna a concentrarsi sul rapporto tra decreto legislativo delegato e legge delega, sotto il profilo dell’eccesso di delega.
La tematica risulta interessante, ai nostri fini, poiché se è pur vero che la dipendenza gerarchica e funzionale che intercorre tra le due fonti si fonda sulla indiscussa supremazia del delegante sul delegato almeno per la definizione dei criteri e principi generali, tale astratta dipendenza incontra, comunque, il limite della pratica e del margine di interpretazione cui lascia spazio la legge delega, che può essere più o meno ampio (ma anche non univocamente interpretabile), anche al di là di quel necessario spazio di manovra che deve essere consentito al governo per portare efficacemente a termine il proprio compito (in tal senso da ultimo v. Corte cost., sent. 212/2018; 133 e 260/2021; 166/2023).
Nel caso di specie, la vicenda origina da un rapporto di lavoro con mansioni di autista, instaurato dopo l’approvazione della c.d legge sul contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, rientrante nell’applicabilità della disciplina speciale per gli autoferrotranvieri.
Proprio in forza di tale disciplina più favorevole, il lavoratore aveva inviato osservazioni difensive relative ad una sanzione disciplinare irrogata alle quali era seguito l’opinamento alla destituzione nonostante questi avesse chiesto di essere nuovamente sentito, come suo diritto, dal Consiglio di Disciplina.
Visti i fatti, una questione semplice, dal momento che dalla violazione della lex specialis non può che derivare la nullità del licenziamento.
Una violazione procedimentale constatabile ictu oculi, ovviamente non sanabile per la pur richiamata mancata designazione del proprio membro nel Consiglio di Disciplina da parte della Regione interessata in quanto il datore di lavoro non può sostituire l’organo terzo cui è devoluta la decisione finale, ma che ha tuttavia aperto una questione collegata alle conseguenze derivanti da tale (tipo) di nullità.
Ossia se la norma (poi indubbiata) prevedesse la reintegra del lavoratore con risarcimento del danno, ovvero la semplice tutela indennitaria con dubbio di costituzionalità anche per una irragionevole gradazione delle ipotesi di nullità.
Tale problematica costituiva conseguenza diretta del quomodo d’esercizio della delega da parte del governo, che all’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, aveva voluto riservare la sanzione della reintegra al licenziamento discriminatorio o riconducibile (solo) agli altri casi di nullità “espressamente” previsti dalla legge.
L’inserimento dell’avverbio “espressamente” da parte del legislatore delegato non è -in verità- privo di effetti in quanto vale a restringere il campo di operatività della norma e, per conseguenza, la possibilità di reintegra, alle sole fattispecie di nullità puntualmente previste in norme di legge.
Non rientrando la nullità di cui si discute in nessuna norma di legge per essere direttamente desumibile da principi generali peraltro sanciti anche dalla unanime giurisprudenza di legittimità, il giudice adito non poteva che concludere che l’ipotesi non potesse che rientrare nell’art.3 del dlgs 23/2015, che prevede una garanzia minore consistente nella tutela indennitaria.
Cosicché, da una parte si finiva per graduare in maniera fors’anche irragionevole sulla tutela spettante al lavoratore a seconda che una ipotesi nullità fosse o no espressamente contemplata da norma di legge, dall’altra la questione -certamente rilevante per il giudizio a quo - non poteva in alcun caso essere risolta per via di interpretazione adeguatrice, poiché risultava non in discussione che la nullità del licenziamento in parola non fosse espressamente previsto in nessuna norma di legge. Il che ci permette di osservare come le chiare lettere della legge possono ancora ammettere un margine di interpretazione che non può, tuttavia, scostarsi dal loro più prossimo intorno.
La medesima posizione è stata, quindi, assunta dal giudice rimettente, la Corte di cassazione, che -dal confermare l’impossibilità di procedere alla reintegra in un tessuto normativo di tal fatta- traeva anche la ragione della non infondatezza della questione di costituzionalità da proporre alla Consulta, dal momento che l’aggiunta dell’avverbio “espressamente” sembrava ridondare in un eccesso di delega poiché la legge delega appariva, invece, voler dar eguale tutela a tutti i licenziamenti nulli o discriminatori.
Difatti mentre il legislatore delegato prescrive la reintegrazione per i licenziamenti discriminatori e per i soli licenziamenti nulli «espressamente previsti dalla legge», la legge delega riconosce (sempre) il diritto nel caso di «licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato».
Ne nasce(rebbe) una categoria di nullità assai casuale, dal momento che -in caso di violazione di norma imperativa- il licenziamento, comunque ed ugualmente nullo, permetterebbe la reintegrazione solo quando vi fosse una norma a “espressamente” contemplare la nullità per quella particolare fattispecie.
Da ciò, dunque, deriva la necessità, per la Corte costituzionale, di valutare se tale limitazione costituisca un naturale ed ammissibile svolgimento dei principi e della ratio della legge delega, come sostenuto dalla difesa statale, o se si siano ecceduti i limiti invalicabili che questa ha posto.
Rispetto a ciò, la Corte sottolinea come la violazione dell’art. 53, settimo e ottavo comma, dell’Allegato A al r.d. n. 148 del 1931, costituisca una violazione di norma imperativa di cui all’art.1418 c.c., dando vita ad una nullità di protezione poiché l’atto di licenziamento non è stato assunto dall’organo che doveva inderogabilmente validarlo, e purtuttavia nel corpus della normativa violata non è “espressamente” prevista la la nullità dell’atto (il licenziamento) quale conseguenza di tale violazione.
Dunque, pur essendo nei fatti un provvedimento nullo, non si può in alcun modo asserire che la norma abbia “espressamente” previsto la nullità per l’inosservanza delle sue prescrizioni (id est, il necessario pronunciamento da parte della Commissione di Disciplina).
Nonostante questa evidenza, la Corte non rifiuta di premettere una disamina delle intenzioni che hanno animato il legislatore e la giurisprudenza costituzionale sulla questione del licenziamento nei suoi rapporti con l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, che -nei passaggi del 1982 e del 1990- hanno visto l’ampliarsi della tutela reintegratoria nei confronti del licenziamento nullo, discriminatorio, illegittimo.
Tale tendenza ha, poi, conosciuto un’inversione di segno con la legge 92/2012 che torna a prevedere la reintegrazione solo per i casi “più gravi”, provvedendo negli altri casi con la tutela indennitaria.
Come noto, a tale disciplina, il legislatore, con la l. delega 183/2014 attuata con d.lgs. n. 23 del 2015 (c.d. Jobs act), ha affiancato una nuova regolamentazione del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato strutturandola a tutele crescenti.
Tale normativa, tuttavia, pur ulteriormente ridimensionando la possibilità della tutela reintegratoria per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 (sul licenziamento c.d. economico e/o collettivo v. Corte cost., sent.7/2023), ha comunque mantenuto le garanzie del legislatore del 2012 in ordine al licenziamento discriminatorio, nullo e intimato in forma orale.
Dunque, stante l’attuale distinzione tra le ipotesi di di licenziamento discriminatorio e quelle di licenziamento nullo, è da sottolineare che vi sono casi (appunto di nullità) in cui la legge dispone diversamente (escludendo la reintegrazione per talune violazioni procedimentali), ipotesi che non ricorre nel caso in esame.
Di tal che, la Corte riscontra come l’ipotesi de quo ricada nella distinzione tra nullità testuali, ossia espressamente previste, e nullità virtuali, che si verificano quando vi sia contrarietà a norma imperativa, ai sensi del primo comma dell’art.1418 c.c., salvo contraria disposizione di legge.
Partendo da tali premesse, la Corte riprende il rapporto tra fonti per evidenziare come il giusto contemperamento tra legge delega e decreto legislativo delegato si basa sulla valorizzazione degli elementi che “rappresentino un coerente sviluppo e un completamento delle scelte espresse dal legislatore delegante”.
Inoltre, la Corte precisa come l’ampiezza dell’intervento consentito possa essere più o meno estesa in ragione del tipo di prescrizione del delegante, che su taluni punti può essere anche assai precisa e per questo non suscettibile di uleriore interpretazione/specificazione.
Tanto che quando la regola juris sia già contenuta nella legge delega “lo scrutinio di questa Corte, nel verificare la conformità ai «principi e criteri direttivi» e il rispetto dei limiti degli «oggetti» della delega, è molto stretto”.
Cosicché il controllo della Corte non può che muovere dal dato “letterale” della legge delega, cui l’interpretazione sistematica può essere affiancata per individuare le finalità complessive della legge e, dunque, la legittimità del “riempimento” posto in essere dal legislatore delegato.
Ma tutto ciò tenendo appunto presente un aspetto pre-valutativo, ossia che “tra l’elemento letterale e quello funzionale-teleologico esiste un rapporto inversamente proporzionale: meno preciso e univoco è il primo, più rilevante risulta il secondo”.
Dalla combinata analisi della ratio legis e del dato letterale pare, dunque, evidente che con il contratto di lavoro a tutele crescenti si sia voluto prevedere una netta distinzione tra licenziamento economico, per il quale la legge delega prevede la possibilità di escludere la reintegrazione, e licenziamenti nulli tout court quale tipologia di licenziamenti illegittimi sempre sanzionabili con la reintegrazioni.
La Corte, peraltro, sottolinea come la norma, nel richiedere una nullità espressa per la reintegrazione, lascerebbe anche prive di tutela una serie importante di altre ipotesi per le quali non sarebbe prevista né la reintegrazione, per i motivi anzidetti, e neppure la tutela indennitaria in quanto non rientranti nelle ipotesi di licenziamento economico.
Tra queste rimarrebbero escluse le ipotesi del “licenziamento in periodo di comporto per malattia (in violazione dell’art. 2110 cod. civ.); del licenziamento per motivo illecito ex art. 1345 cod. civ., quale quello ritorsivo del dipendente (il cosiddetto whistleblower), che segnala illeciti commessi dal datore di lavoro (art. 2, comma 2-quater, della legge 30 novembre 2017, n. 179, recante «Disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato»); del licenziamento intimato in violazione del “blocco” dei licenziamenti economici durante il periodo emergenziale, disposto dall’art. 46 del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18 (Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 24 aprile 2020, n. 27, e successive proroghe; del licenziamento intimato in contrasto con l’art. 4, comma 1, della legge 12 giugno 1990, n. 146 (Norme sull’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e sulla salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati. Istituzione della Commissione di garanzia dell’attuazione della legge); del licenziamento in violazione del diritto alla conservazione del posto di cui all’art. 124, comma 1, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza)”.
Per tali motivi la Corte ha provveduto a dichiarare “l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), limitatamente alla parola «espressamente»”, anche ammonendo il legislatore sulla necessità di intervenire, con coerenza, per riportare a sistema, anche alla luce delle indicazioni contenute nei ripetuti interventi della Consulta, una normativa avente carattere essenziale che è stata investita da una moltitudine di provvedimenti normativi a carattere frammentario.