Giurisprudenza costituzionale

La nuova disciplina della detenzione domiciliare sostitutiva al vaglio della Corte: il margine di discrezionalità del legislatore delegato è da considerarsi particolarmente esteso in caso di riforme di ampio respiro (2/2024)

Sentenza n. 84/2024 – giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale

Deposito del 10 maggio 2024 – Pubblicazione in G.U. del 15/05/2024, n. 20

Motivo della segnalazione

Nella sentenza n. 84 del 2024 la Corte costituzionale ha affrontato le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 71, comma 1, lettere c), s) e v), del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, nella parte in cui disciplinano la nuova pena sostitutiva della detenzione domiciliare, in attuazione della delega conferita al Governo dalla legge 27 settembre 2021, n. 134 (c.d. riforma Cartabia).

 

In particolare, ad avviso della Corte d’appello di Bologna le disposizioni censurate si porrebbero in contrasto con i principi e criteri direttivi di cui all’articolo 1, comma 17, lettere f) e n), della legge delega n. 134 del 2021, in base ai quali le scelte operate dal Governo in relazione all’istituto della detenzione domiciliare sostitutiva avrebbero dovuto mutuare, in quanto compatibile, la disciplina sostanziale e processuale relativa alla omonima misura alternativa alla detenzione. Le disposizioni introdotte dall’articolo 71, comma 1, lettere c), s) e v), del decreto legislativo n. 150 del 2022, nella misura in cui si discostano da tale disciplina in relazione alla durata dell’obbligo di permanenza presso il domicilio designato per l’espiazione della pena, alla possibilità di fruire di licenze e alle conseguenze penali dell’ingiustificato allontanamento dal domicilio, determinerebbero pertanto – ad avviso del giudice rimettente – una irragionevole disparità di trattamento del condannato alla pena sostitutiva della detenzione domiciliare rispetto al condannato ammesso alla corrispondente misura alternativa, con conseguente violazione degli articoli 3, 27 e 76 della Costituzione.

La Corte costituzionale, dopo aver dichiarato l’inammissibilità delle questioni concernenti l’articolo 71, comma 1, lettere s) e v), del decreto legislativo n. 150 del 2022 per irrilevanza nel giudizio a quo, ha esaminato nel merito le censure di costituzionalità relative alla lettera c) del medesimo articolo 71, comma 1, con esclusivo riferimento al parametro costituzionale dell’articolo 76 della Costituzione, giudicate ammissibili in ossequio al consolidato orientamento della giurisprudenza costituzionale, in base al quale al principio generale che preclude l’adozione di pronunce con effetti in malam partem in materia penale fa eccezione l’ipotesi in cui le censure di costituzionalità riguardino i vizi di formazione degli atti aventi forza di legge in materia penale.

Infatti, se «l’esclusione delle pronunce in malam partem mira a salvaguardare il monopolio del “soggetto-Parlamento” sulle scelte di criminalizzazione, sarebbe illogico che detta preclusione possa scaturire da interventi normativi operati da soggetti non legittimati, i quali pretendano di “neutralizzare” le scelte effettuate da chi detiene quel monopolio – quale il Governo, che si serva dello strumento del decreto legislativo senza il supporto della legge di delegazione […], o le Regioni, che legiferino indebitamente in materia penale, loro preclusa (sentenza n. 46 del 2014)».

Nel merito, la questione è stata ritenuta non fondata dalla Corte.

Dopo aver richiamato la propria costante giurisprudenza sulle modalità in cui va operato il controllo sul superamento dei limiti posti dalla legge delega – ricordando in particolare che «[t]ra l’elemento letterale e quello funzionale-teleologico esiste un rapporto inversamente proporzionale: meno preciso e univoco è il primo, più rilevante risulta il secondo» - i giudici costituzionali si sono soffermati sulla portata da attribuire alla clausola «in quanto compatibile», contenuta nel principio e criterio direttivo di delega in questione.

Essa non indica che il Governo fosse tenuto a riprodurre pedissequamente la disciplina dell’omonima misura alternativa, bensì che il legislatore delegato «avesse il potere di operare tutte le modifiche necessarie affinché quella disciplina, calibrata sulla fase esecutiva della pena, potesse essere adattata alla fisionomia di una pena sostitutiva da applicare già con la sentenza di condanna, e dunque già in fase di cognizione».

A tale elemento letterale, la Corte ha poi unito quello funzionale-teleologico esaminando le finalità complessive della riforma, anche attraverso la disamina dei lavori parlamentari concernenti la legge delega, concludendo nel senso di ritenere che le scelte operate dal legislatore delegato « si inseriscono coerentemente, dal punto di vista sistematico, nel quadro di un complessivo intervento legislativo volto anche […] ad assicurare risposte sanzionatorie al reato certe, rapide ed effettive, ancorché alternative rispetto al carcere», così escludendo che il Governo abbia ecceduto i limiti posti dalla legge di delega nell’esercizio del margine di discrezionalità che è connaturato all’istituto stesso della delegazione legislativa.

Margine che – ha precisato la Corte – «è specialmente ampio – fatte salve eventuali puntuali indicazioni su singoli profili che la legge delega abbia comunque fornito – nel caso in cui il Governo sia chiamato a riforme normative di ampio respiro, come quella oggetto della legge n. 134 del 2021 e poi attuata con il d.lgs. n. 150 del 2022, le quali richiedono interventi su distinti corpora normativi e complesse operazioni di coordinamento sistematico tra le molteplici discipline su cui la riforma deve necessariamente incidere».

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