Sentenza n. 262/2017 – giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato
Deposito del 13/12/2017 – Pubblicazione in G.U. 20/12/2017, n. 51
Motivo della segnalazione
Con la sentenza n. 262/2017 la Corte costituzionale ha risolto due conflitti di attribuzione interorganici sollevati dalle sezioni unite civili della Corte di cassazione nei confronti del Senato e della Presidenza della Repubblica. I due conflitti avevano a oggetto, rispettivamente, gli artt. da 72 a 84 del t.u. delle norme regolamentari dell’Amministrazione riguardanti il personale del Senato – i quali precludono l’accesso dei dipendenti del Senato alla tutela giurisdizionale in riferimento alle controversie di lavoro insorte con l’Amministrazione stessa, affidandone invece la risoluzione a organi interni a quel ramo del Parlamento – e il decreto presidenziale 26 luglio 1996, n. 81, successivamente modificato e integrato, nella parte in cui preclude l’accesso dei dipendenti del Segretariato generale della Presidenza della Repubblica alla tutela giurisdizionale in riferimento, ancora, alle controversie di lavoro insorte con l’amministrazione di appartenenza.
Giunge così a compimento una vicenda in cui la Corte costituzionale, pur dichiarando inammissibile una questione di legittimità costituzionale avente a oggetto i regolamenti parlamentari, nondimeno aveva indicato al giudice di legittimità la possibilità di percorrere la via del conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato (sentenza n. 120/2014). In particolare, il giudice delle leggi aveva osservato che è “questione controversa” la riconducibilità dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle Camere e dei rapporti con terzi alla sfera dell’autonomia regolamentare delle Camere; tuttavia “anche norme non sindacabili potrebbero essere fonti di atti lesivi di diritti costituzionalmente inviolabili e, d’altra parte, deve ritenersi sempre soggetto a verifica il fondamento costituzionale di un potere decisorio che limiti quello conferito dalla Costituzione ad altre autorità” (sentenza n. 120/2014, paragrafo 4.4 del Considerato in diritto). Al tempo stesso, il giudice delle leggi aveva osservato en passant che “negli ordinamenti costituzionali a noi più vicini, come Francia, Germania, Regno Unito e Spagna, l’autodichia sui rapporti di lavoro con i dipendenti e sui rapporti con i terzi non è più prevista”.
Nelle ordinanze con cui ha sollevato i due conflitti di attribuzione la Corte di cassazione ha lamentato un’indebita compressione della sfera di attribuzioni costituzionali dell’autorità giudiziaria, che darebbe luogo a una violazione degli artt. 3, primo comma, 24, primo comma, 102, secondo comma – quest’ultimo in combinato disposto con la VI disposizione transitoria e finale –, 108, secondo comma, e 111, primo e secondo comma, Cost.
La sentenza della Corte costituzionale muove da una ricostruzione del fenomeno dell’autodichia, definita come una “manifestazione tradizionale della sfera di autonomia riconosciuta agli organi costituzionali” (paragrafo 7.1 del Considerato in diritto). Sebbene la Costituzione riconosca autonomia regolamentare in termini espliciti soltanto alle Camere, nondimeno la giurisprudenza costituzionale ha già affermato che anche i regolamenti approvati dal Presidente della Repubblica sono sorretti da un implicito fondamento costituzionale (sentenza n. 129/1981). Inoltre, la Corte costituzionale ha ricostruito in termini ampi l’autonomia regolamentare di entrambi questi organi costituzionali, senza limitarla alla disciplina del procedimento legislativo – per le Camere –, né, per il Presidente della Repubblica, all’amministrazione dei beni rientranti nella sua dotazione. Il libero ed efficiente adempimento delle funzioni costituzionali del Senato e della Presidenza della Repubblica costituisce il fondamento anche della potestà di “approvare norme relative al rapporto di lavoro con i propri dipendenti”, con esclusione però della disciplina di “rapporti giuridici con soggetti terzi” o della “decisione di eventuali controversie che ne coinvolgano le situazioni soggettive” (paragrafo 7.2 del Considerato in diritto).
Al tempo stesso, la Corte rileva che l’autonomia degli organi costituzionali non si esaurisce nella potestà di darsi norme, ma comprende anche il momento applicativo di quelle stesse norme: e “[t]ale momento applicativo, ossia proprio l’autodichia … costituisce dunque uno svolgimento dell’autonomia normativa che la Costituzione riconosce esplicitamente o implicitamente alle Camere e al Presidente della Repubblica”, “razionale completamento dell’autonomia organizzativa degli organi costituzionali in questione, in relazione ai loro apparati serventi, la cui disciplina e gestione viene in tal modo sottratta a qualunque ingerenza esterna” (paragrafo 7.3 del Considerato in diritto).
Alla luce di questa ricostruzione, la “questione controversa” che non aveva ricevuto risposta nella sentenza n. 120/2014 è così risolta: l’autodichia non è lesiva di attribuzioni costituzionali altrui – e in particolare dell’autorità giudiziaria – se (e soltanto se) riguarda i rapporti di lavoro dei dipendenti delle Camere o della Presidenza della repubblica.
Al tempo stesso, la Corte rileva che la presenza degli organi di autodichia non si risolve in una difettosa o inesistente tutela delle posizioni giuridiche soggettive dei dipendenti. Non si tratta di giudici speciali – il che rende non ipotizzabile il ricorso ex art. 111 , settimo comma, Cost. – ma di organi interni. Benché estranei all’organizzazione della giurisdizione, questi ultimi risultano ormai costituiti secondo regole volte a garantirne l’indipendenza e l’imparzialità, in linea coi principi costituzionali e con le indicazioni desumibili dalla sentenza Savino e altri c. Italia della Corte europea dei diritti dell’uomo. Si può anzi dire che l’attività degli organi di autodichia abbia ormai carattere oggettivamente giurisdizionale, tanto che questi possono essere ritenuti legittimati alla sollevazione di questioni di legittimità costituzionale (sentenza n. 213/2017).