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Bilancio degli enti territoriali e riserva di legge: incostituzionali le norme sulle modalità di attuazione della disciplina del ricorso all’indebitamento da parte degli enti territoriale e del connesso potere sostitutivo del Governo (1/2018)

Sentenza n. 252/2017 – giudizio di legittimità costituzionale in via principale

Deposito del 06/12/2017 – Pubblicazione in G. U. 13/12/2017, n. 50

Motivo della segnalazione
La sentenza origina da un giudizio in via principale con cui le Province autonome, la Regione Trentino-Alto Adige, la Regione Friuli-Venezia Giulia e le Regioni ordinarie Lombardia, Liguria e Veneto avevano sollevato questioni relative all’art. 2, comma 1, lettere a) e c), della legge 12 agosto 2016, n. 164 (Modifiche alla legge 24 dicembre 2012, n. 243, in materia di equilibrio dei bilanci delle regioni e degli enti locali).

La decisione è interessante per quanto afferma in ordine all’interpretazione di alcune importanti previsioni della legge n. 243/2012, attuativa della legge cost. n. 1/2012, che, come è noto, ha modificato gli articoli 81, 97, 117 e 119 della Costituzione.
Le questioni si appuntano in particolare su alcune modifiche che la legge n. 164/2016 ha apportato alla legge n. 243/2012, la quale disciplina, come è noto, mediante gli articoli dal 9 al 12, l’applicazione del principio dell’equilibrio complessivo tra entrate e spese nei confronti delle Regioni e degli enti locali, fissando la regola nuova del raggiungimento di un unico saldo complessivo per gli enti di ciascuna Regione, che deve essere “non negativo” e precisando inoltre, all’art. 9, comma 1, che la regola contabile dell’equilibrio di bilancio si applica anche alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome. All’art. 10, comma 1, è inoltre stabilito che le condizioni di ricorso all’indebitamento si applicano anche nei confronti delle autonomie speciali.
A venire in gioco sono in particolare questioni concernenti disposizioni che, in relazione alle operazioni di indebitamento e di investimento attraverso l’utilizzo dei risultati di amministrazione di esercizi finanziari precedenti, stabiliscono che esse debbano essere condotte sulla base di intese concluse in ambito regionale oppure sulla base di patti di solidarietà nazionali.
Entrando nello specifico, con riferimento ai profili di maggiore interesse dal punto di vista di un’analisi del funzionamento delle relazioni tra fonti del diritto, è contestata la legittimità della disposizione (art. 10, comma 5, della legge n. 243/2012, come modificato dalla legge n. 164/2016) contenente la disciplina delle modalità di ricorso all’indebitamento da parte di Regioni ed enti locali secondo cui «con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, da adottare d’intesa con la Conferenza unificata, sono disciplinati criteri e modalità di attuazione del presente articolo, ivi incluse le modalità attuative del potere sostitutivo dello Stato, in caso di inerzia o ritardo da parte delle regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano».
Con riguardo a tale previsione erano state sollevate tre questioni di costituzionalità, le quali sono state affrontate e risolte dalla Corte costituzionale nella maniera che è di seguito descritta.
Viene in primo luogo sottoposta all’attenzione della Corte una questione basata sulla asserita violazione del giudicato costituzionale (art. 136 Cost.) formatosi con la sent. n. 88/2014, che aveva dichiarato incostituzionale la disciplina del dpcm chiamato a disciplinare criteri e modalità di attuazione dell’articolo 10 della legge n. 243/2012 (relativi all’uso dei risultati di amministrazione degli esercizi precedenti per operazioni di indebitamento e di investimento), «nella parte in cui non prevede la parola “tecnica”, dopo le parole “criteri e modalità di attuazione” e prima delle parole “del presente articolo”».
Tale questione è dichiarata infondata, dal momento che, in presenza di una significativa modifica del contenuto precettivo delle norme in discussione, anche in relazione al diverso contesto determinato dalla novellazione dell’art. 9, non sussiste, sia sotto il profilo sostanziale che formale, il ripristino o la conservazione del significato della norma dichiarata costituzionalmente illegittima.
La seconda questione verte sulla riconducibilità della disciplina in esame alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, quale presupposto della potestà regolamentare ex art. 117, sesto comma, Cost., e della necessità di un carattere meramente tecnico del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri.
Tale questione è dichiarata fondata. Il nucleo dell’argomentazione della Corte attiene al fatto che la legge in discussione, attuativa dell’art. 5 della legge cost. n. 1/2012, a sua volta fondato sull’art. 81, comma 6, Cost., è una legge rinforzata, ragion per cui «è da escludere che lo Stato possa esercitare in materia una potestà regolamentare integrativa e non meramente tecnica». Se lo facesse violerebbe l’ambito di pertinenza costituzionalmente riservato (in maniera rinforzata) al legislatore.
I riferimenti alle intese o a patti di solidarietà nazionale, ai cui contenuti il dpcm deve fare riferimento, appaiono formulati in termini così generali da poter comportare l’esercizio di un potere tanto di natura meramente tecnica, quanto di natura discrezionale. È costituzionalmente necessario invece che sia riservato al dpcm un compito attuativo meramente tecnico per ricondurre a legittimità costituzionale la norma impugnata. Il comma 5 dell’art. 10 della legge n. 243 del 2012, è pertanto costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede la parola «tecnica», dopo le parole «criteri e modalità di attuazione» e prima delle parole «del presente articolo».
Resta ferma, aggiunge la Corte, nei confronti di atti regolamentari (i dpcm) che dovessero esorbitare dai limiti tracciati, incidendo così sulle prerogative delle autonomie speciali, la possibilità «di esperire i rimedi consentiti dall’ordinamento, ivi compreso, se del caso, il conflitto di attribuzione davanti a questa Corte» (sentenza n. 88 del 2014).
La terza questione riguarda la disposizione che rimette al dpcm sopra richiamato la disciplina delle modalità attuative del potere sostitutivo dello Stato. Si prospetta, nel complesso, la violazione degli artt. 120, secondo comma, ultimo periodo, e 117, quinto comma, Cost., deducendosi che la norma non fa riferimento ad alcuno dei presupposti costituzionali che giustificano il potere sostitutivo; dell’art. 3 Cost., con riguardo al profilo della ragionevolezza, del divieto di arbitrarietà e della certezza del diritto, nonché al principio di legalità sostanziale; dell’art. 117, terzo e sesto comma, Cost. (richiamato ai sensi dell’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001), i quali richiedono la fonte normativa statale e limitano il potere regolamentare alle materie di competenza legislativa statale esclusiva; dei princìpi di autonomia legislativa, amministrativa e finanziaria, in relazione alle disposizioni statutarie che ne costituiscono il fondamento.
La questione è dichiarata fondata per violazione dell’art. 120, secondo comma, Cost. La disposizione introduce, all’evidenza, una riserva di legge in materia di disciplina del potere sostitutivo, disciplina che in effetti è stata adottata con l’art. 8 della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3). Pertanto è costituzionalmente illegittima, perché lede i principi enunciati dall’art. 120, secondo comma, Cost., la previsione impugnata che rimette al decreto le modalità di attuazione del potere sostitutivo dello Stato in relazione all’inerzia o ritardo delle Regioni o delle Province ad autonomia speciale.

 

Osservatorio sulle fonti

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