Sentenza n. 257/2017 – giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale
Deposito del 6/12/2017 – Pubblicazione in G.U. 13/12/2017 n. 50
Motivo della segnalazione
Con la sentenza n. 257/2017 la Corte costituzionale ha esaminato, dichiarandola inammissibile, una questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 3, lettera a), del decreto-legge 15 novembre 1993, n. 453, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 gennaio 1994, n. 19 e recante Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti. Tale disposizione – ora abrogata per effetto dell’entrata ni vigore del codice di giustizia contabile di cui al d.lgs. n. 174/2016 – disciplina i poteri dei presidenti delle sezioni giurisdizionali regionali della Corte dei conti nei giudizi di responsabilità; il giudice a quo, dal canto suo, ha ritenuto che essa si ponesse in contrasto con gli artt. 3, primo comma, e 25, primo comma, Cost. nella parte in cui non prevedeva che la designazione del giudice fosse effettuata sulla base di criteri oggettivi e predeterminati.
Nell’ordinanza di rimessione si osserva poi che la Corte costituzionale ha già rigettato una questione di legittimità avente il medesimo oggetto, segnalando però che “l’esplicitazione di criteri per l’assegnazione degli affari in quanto espressivi di un’esigenza costituzionale, che opera in tutti i settori della giurisdizione, possa aver luogo proprio nell’ambito di detti poteri discrezionali [dei capi degli uffici], quale manifestazione ed esercizio dei medesimi, senza necessità né di una specifica previsione legislativa né, tantomeno di un intervento additivo di questa Corte. In tal senso … depone anche la prassi del Consiglio superiore della magistratura … per gli affari civili, in assenza di norme analoghe a quelle della materia penale … la questione è da ritenere, perciò, non fondata, potendo pervenirsi già ora, nell’ordinamento vigente per la Corte dei conti, alla formulazione di criteri per l’assegnazione degli affari attraverso l’esercizio dei poteri spettante ai capi degli uffici” (sentenze n. 272/1998, paragrafo 4.3 del Considerato in diritto). Ora, nei quasi vent’anni trascorsi da quella pronuncia, il Consiglio di presidenza della Corte dei conti – in ciò discostandosi sia dal CSM, sia dal Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa – non ha mai assunto iniziative di questo tipo. Nel frattempo, peraltro, il legislatore ha dettato una disciplina più incisiva sull’assegnazione degli affari nei giudizi pensionistici innanzi alla Corte dei conti (art. 42 della legge n. 69/2009), con ciò generando un’ingiustificabile divaricazione fra i due procedimenti.
La Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile questa nuova questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 3, lettera a), del d.l. n. 453/1993, rimproverando al giudice a quo un’inesatta individuazione della disposizione oggetto dell’impugnativa e una difettosa motivazione dell’ordinanza di rimessione in punto di rilevanza. Da un altro punto di vista, però, l’evoluzione del quadro normativo intervenuta dal 1998 a oggi potrebbe avere reso viepiù non pertinente il riferimento, compiuto dal giudice a quo, a una sopravvenuta illegittimità costituzionale della disposizione impugnata. Rispetto a ciò che la Corte aveva affermato nella propria sentenza del 1998, in effetti, è intervenuto un significativo mutamento della cornice legislativa di riferimento. Per effetto dell’art. 11, comma 7, della legge 4 marzo 2009, n. 15, gran parte delle attribuzioni che erano state del Consiglio di presidenza – non più organo di autogoverno, bensì “organo di amministrazione del personale di magistratura” – sono state trasferite a un organo monocratico, il Presidente della Corte dei conti. In particolare, sulla base del combinato disposto dell’art. 11 della legge n. 15/2009 e dell’art. 10 della legge n. 117/1988, la determinazione dei criteri di massima per la ripartizione degli affari consultivi e dei ricorsi non figura più tra le funzioni espressamente attribuite a organi della Corte diversi dal suo Presidente.
La Corte costituzionale si chiede dunque se il potere di dettare i criteri di massima per la ripartizione degli affari e la composizione dei collegi sia tuttora da annoverare fra le attribuzioni del Consiglio di presidenza, o se, invece, “[l]’eventuale vulnus alle … garanzie assicurate dall’art. 25, primo comma, Cost., nella prospettiva ‘sopravvenuta’ evidenziata dallo stesso giudice a quo, andrebbe semmai rinvenuto nel combinato disposto dell’art. 10 della legge n. 117 del 1988 e dell’art. 11 della legge n. 15 del 2009, e non nella disposizione censurata dal rimettente” (paragrafo 4.3 del Considerato in diritto).