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Nel periodo qui considerato vanno segnalati alcuni interventi legislativi regionali su temi diversi, ma che si inquadrano, vuoi per tempistica, vuoi per contenuti, in una prospettiva di accompagnamento alla fase centrale e finale della pandemia ancora in atto, in quanto diretti a disciplinare settori la mancanza della cui disciplina è stata acuita dalla pandemia stessa.

Tra gli interventi programmati nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) compare finalmente anche la riforma dell’ordinamento delle professioni delle guide turistiche (v. Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, M1C3.4 TURISMO 4.0, Riforma 4.1: Ordinamento delle professioni delle guide turistiche, 117). L’intervento del legislatore statale è atteso da tempo, dal momento che la disciplina della materia – strategica per il settore, chiamato ad affrontare la ripresa post-pandemica – è bloccata in una “paralisi” dovuta a una serie di vicende normative e giudiziarie succedutesi nel tempo.

Ciò non solo impedisce – in ottica ordinamentale – l’esercizio della competenza legislativa concorrente delle Regioni in materia ex art. 117, comma 3, Cost., e si riflette inevitabilmente sulla definizione delle politiche turistiche, riconducibili (quanto meno in via generale) alla competenza residuale delle Regioni ai sensi dell’art. 117, comma 4, Cost.; ma finisce per impedire pure l’accesso alla professione da parte delle aspiranti guide, spinte talvolta a conseguire il titolo all’estero, con il rischio ulteriore di fungere da incentivo all’abusivismo.

Per comprendere la situazione odierna e l’urgenza della riforma è necessario ricapitolare brevemente l’evoluzione della disciplina delle professioni turistiche (e quindi delle guide turistiche, che qui interessano).

Il 2020 ha rappresentato senza dubbio un anno di svolta per le Regioni, sia sotto l’aspetto delle competenze, che per quanto riguarda la produzione legislativa. Un anno che verrà senza dubbio ricordato come uno dei più critici nella storia moderna e contemporanea e che quindi non può certamente non far riflettere sull’evoluzione del ruolo degli enti locali nella forma di governo locale e nel delicato equilibrio tra garanzia dei diritti individuali e tutela dell’interesse collettivo.

In questo anno, infatti, le Regioni hanno rappresentato l’anello di filtro tra i vari livelli di governo, sia per quanto riguarda la gestione dei fondi da ripartire fra le Regioni (cosa che in qualche modo si ripeterà anche con l’imminente nuovo ciclo di programmazione europea e i fondi provenienti dal PNRR), sia per la complicata gestione dell’emergenza che ne ha in qualche modo contraddistinto l’iniziativa politica e legislativa nei vari settori.

Il posto a disposizione delle Regioni nel diritto del Terzo Settore

Il Codice del Terzo Settore (d.lgs. 3 luglio 2017 n.117) ha realizzato una riforma complessiva della materia, che ha prodotto, quale principale effetto (di sistema) la conformazione della stessa secondo la fisionomia di un vero e proprio settore dell’ordinamento, recidendo i lacci che storicamente l’avevano legata ad una posizione ancillare (nel senso di sostanziale dipendenza) rispetto, soprattutto, al diritto civile e a quello tributario. Quest’operazione è avvenuta soprattutto attraverso la perimetrazione legislativa del settore, realizzata per mezzo della definizione soggettiva degli enti (del Terzo Settore) che lo compongono e degli elementi oggettivi da cui questa dipende (su tutti l’attività di interesse generale, art. 5 CTS).

L’esito della riforma (che non si esaurisce nel decreto legislativo n. 117, ma a cui contribuiscono anche altri atti primari – tra cui il decreto “impresa sociale” n. 112 del 2017 – e secondari – tra cui, ad esempio, il decreto “RUNTS” del Ministero del Lavoro n. 106 del 2016) è dunque, in termini essenziali ed estremamente generici, la creazione di uno spazio giuridico nel quale l’autonomia privata, in adempimento del principio di solidarietà e senza scopo di lucro, svolge attività di interesse generale, venendo al contempo, supportata da un intervento promozionale da parte dei pubblici poteri, e sottoposto ad obblighi di trasparenza e a forme di controlli ulteriori.

L’art. 11-quater del d.l. n. 135 del 2018 (c.d. decreto semplificazioni – cfr. la scheda del Servizio studi della Camera) ha disposto il passaggio dallo Stato alle Regioni della proprietà delle opere idroelettriche e della gestione delle relative concessioni “al fine di definire una disciplina efficiente e coerente con le disposizioni dell'ordinamento dell’Unione europea” (comma 1). Secondo il disegno di questa disposizione, “le regioni disciplinano con legge, entro un anno dalla data di entrata in vigore della presente disposizione e comunque non oltre il 31 marzo 2020 le modalità e le procedure di assegnazione delle concessioni di grandi derivazioni d’acqua a scopo idroelettrico” (comma 1-ter). Il termine è stato successivamente prorogato al 31 ottobre 2020. I contenuti delle leggi regionali sono peraltro in gran parte predeterminati nei contenuti essenziali dallo stesso art. 11-quater. La Regione Toscana ha impugnato la disposizione davanti alla Corte costituzionale lamentandone appunto il carattere eccessivamente invasivo delle scelte regionali. La Corte, pronunciandosi con sentenza n. 155 del 2020 (cfr. G. Boggero in Osservatorio AIC 6/2020), ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dei commi 1-quinquies e 1-septies nelle parti in cui predeterminavano la destinazione del canone delle concessioni (al comma 1-quinquies si prevedeva che almeno il 60 per cento del canone andasse “alle province e alle città metropolitane il cui territorio è interessato dalle derivazioni”, e analogamente nel comma 1-septies con riferimento al canone aggiuntivo). Ciò in quanto si trattava di disposizioni di dettaglio non compatibili con il carattere concorrente della competenza statale e in ogni caso lesive della autonomia finanziaria regionale.

Osservatorio sulle fonti

Rivista telematica registrata presso il Tribunale di Firenze (decreto n. 5626 del 24 dicembre 2007). ISSN 2038-5633.

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