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L’abbassamento dell’età pensionabile di giudici, procuratori e notai da 70 a 62 anni ad opera della nuova Costituzione ungherese viola la direttiva 2000/78/CE [1]          

La sentenza della Corte di giustizia del 6 novembre 2012, nella causa C-286/12, Commissione c. Ungheria, si colloca nel solco delle vicende relative all’adozione della nuova Legge Fondamentale ungherese, promulgata il 25 aprile 2011 ed entrata in vigore il 1 gennaio 2012.[2] Si tratta, infatti, della sentenza che chiude una delle tre procedure di infrazione avviate dalla Commissione europea nei confronti dell’Ungheria per pretese violazioni del diritto dell’Unione europea ad opera della nuova Costituzione e delle cd. leggi cardinali adottate contestualmente.[3] La Commissione ha deciso di chiudere la procedura di infrazione relativa alla mancanza di adeguate garanzie di indipendenza della banca centrale ungherese, in conseguenza dell’approvazione, con il voto favorevole della BCE, di alcuni emendamenti presentati dal Parlamento al Governo. Al contrario, la Commissione ha deciso di coltivare le procedure relative all’abbassamento dell’età pensionabile dei giudici, notai e procuratori, e all’indipendenza del garante nazionale dei dati personali. In entrambi i casi, la Commissione ha ritenuto di dover porre la questione all’attenzione della Corte di giustizia, presso la quale è ancora pendente il ricorso relativo all’indipendenza del garante ungherese dei dati personali. Con la sentenza in esame, invece, la Corte di giustizia ha rilevato che l’abbassamento dell’età pensionabile di giudici, notai e procuratori da 70 a 62 anni costituisce una discriminazione ingiustificata in base all’età, e pertanto vietata dalla direttiva 2000/78/CE.[4]

Ancora sulla rilevanza dei diritti fondamentali - quali garantiti dalla Carta UE e dalle costituzioni nazionali - nell’ambito del sistema del mandato d’arresto europeo

Nell’arco di poco meno di un mese, la Corte di giustizia, nella composizione della Grande Sezione, ha deliberato due sentenze in cui emerge ancora il delicato rapporto tra la tutela dei diritti fondamentali della persona e una cooperazione giudiziaria efficace ed efficiente nell’ambito del sistema del mandato d’arresto europeo, istituito dalla decisione quadro 2002/584/GAI.[1] Nella sentenza Radu, emessa il 29 gennaio 2013, la Corte era sostanzialmente chiamata a chiarire se l’omessa audizione della persona destinataria di un mandato d’arresto europeo finalizzato all’esercizio dell’azione penale costituisce una violazione dei diritti garantiti dagli articoli 47 e 48 della Carta, idonea a giustificare un eventuale rifiuto di eseguire il mandato al di là dei motivi di non esecuzione, obbligatori e facoltativi, previsti dalla decisione quadro. Invece, nella sentenza Melloni, emessa il 26 febbraio 2013 e originata da un rinvio pregiudiziale proposto dal Tribunal Constitucional (Corte costituzionale spagnola), la Corte era chiamata ad esaminare la compatibilità dell’art. 4 bis della decisione quadro 2002/584/GAI, nella versione modificata dalla decisione quadro 2009/299/GAI,[2] con gli articoli 47 e 48, par. 2, della Carta. Inoltre, il giudice del rinvio chiedeva anche alla Corte di interpretare l’art. 53 della Carta, onde chiarire se il richiamo al livello di protezione garantito dalle costituzioni nazionali - e più alto rispetto a quello della Carta stessa - deve essere interpretato come una deroga al principio del primato del diritto dell’Unione europea.

La procedura d'infrazione è volta a rilevare eventuali inadempimenti da parte degli Stati di obblighi ad essi imposti dal diritto dell'Unione europea. La sua disciplina è contenuta negli articoli da 258 a 260 del Trattato sul Funzionamento dell'Unione europea (TFUE). I ricorsi possono essere proposti dalla Commissione (art. 258 TFUE) oppure da un altro Stato membro (art. 259 TFUE); tuttavia, ad oggi questa seconda ipotesi si è verificata in pochi casi. Nell'ipotesi più frequente, è la Commissione che dà avvio alla procedura, spesso sulla base di segnalazioni provenienti da persone fisiche o giuridiche.

La Commissione non ha tuttavia un obbligo di dare seguito ad ogni segnalazione e, infatti, nella prassi essa procede solo nel caso di violazioni ritenute sostanziali; inoltre, anche una volta avviata la procedura, la sua prosecuzione non è un atto dovuto da parte della Commissione, che può dunque decidere se intraprendere o meno gli steps successivi che sono di sua competenza (in sostanza, l'invio del parere motivato e la decisione di ricorrere alla Corte di giustizia). La prima fase della procedura – definita «precontenziosa» – si apre con l'invio di una lettera detta di «intimazione» o di «addebito» allo Stato membro ritenuto inadempiente. La lettera di addebito circoscrive la materia del contendere, cosicché, nell'ipotesi in cui la Commissione decida di proseguire nell'iniziativa, l'oggetto della procedura non può essere ulteriormente ampliato. Allo Stato interessato è assegnato un termine per presentare delle osservazioni (art. 258.1 TFUE).

Ord. TAR Lazio sez. II bis 5.4.2013, n. 1488

Il Tar Lazio premette che la peculiare condizione di pericolo per la salute umana connessa alla concentrazione di arsenico nell'acqua del sistema idrico comunale giustifica l'adozione di un'ordinanza contingibile ed urgente.

Ricorda poi che, alla stregua della costante giurisprudenza concernente la mancata adozione di provvedimenti attuativi di disposizioni legislative, le norme di legge che pongono criteri puntuali di regolazione del mercato a tutela della concorrenza e dei consumatori, quale la correlazione fra tariffa e qualità dell'acqua – bene primario essenziale alla vita e salute umana alla stregua degli artt. 2 e 32 della Costituzione –, devono trovare piena e diretta attuazione anche nelle more dei necessari adempimenti attuativi della Pubblica Amministrazione, ivi incluse le Autorità indipendenti.

Sent. TAR ABRUZZO, Pescara, sez. I, 18.3.2013, n. 186

Il ricorrente aveva impugnato l'ordinanza sindacale adottata ex art. 54 t.u.e.l., con la quale gli era stato ordinato di provvedere a rimuovere delle scritte sulle pareti esterne del proprio appartamento, riportanti frasi offensive nei confronti del Sindaco.

Il giudice amministrativo, rileva che, nel caso di specie, si trattava proprio di impedire la permanenza di scritte offensive e pertanto costituenti, astrattamente, ipotesi di reato e che, qualora si debba interrompere la prosecuzione di fatti costituenti reato e quindi incidenti su beni interessi di rilievo costituzionale, l'urgenza può essere ritenuta in re ipsa, purché la misura adottata sia proporzionale ed adatta allo scopo. Considera infine che, nel caso di specie, la misura adottata appariva adeguata e proporzionata, in comparazione con la lieve entità del sacrificio imposto che rientra appieno nei limiti della "concreta situazione di fatto che si tratta di fronteggiare" (cioè essa appare duttilmente adeguato alla concreta situazione di fatto, cfr. Corte Costituzionale n. 4 del 1977 sul previgente articolo 20 del t.u. comunale e provinciale). Conseguentemente respinge il ricorso.

Osservatorio sulle fonti

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