Con la sentenza n. 111, pubblicata il 5 giugno 2023, la Corte costituzionale (redattore F. Viganò), ha accolto le questioni di legittimità costituzionali avanzate dal Tribunale di Firenze, relativamente agli articoli 64, terzo comma, cod. proc. pen. e 495 cod. pen., per contrasto con l’art. 24 Cost.
Il Tribunale di Firenze doveva decidere sulla responsabilità penale di un imputato per il reato di false dichiarazioni a un pubblico ufficiale sulla propria identità o le proprie qualità previsto dall’art. 495 cod. pen., che - accompagnato in Questura per l’identificazione nell’ambito di un procedimento penale - aveva dichiarato alla polizia di non avere mai subito condanne, senza essere stato avvertito della facoltà di non rispondere. Successivamente era emerso che, in realtà, quella persona era stata già condannata due volte in via definitiva. Il giudice rimettente aveva osservato che il codice di procedura penale, così come interpretato dalla costante giurisprudenza della Corte di cassazione, richiede che ogni persona sottoposta a indagini sia avvertita della propria facoltà di non rispondere soltanto alle domande relative al fatto di cui è accusata, ma non alle domande relative alle circostanze personali elencate all’art. 21 disp. att. cod. proc. pen.: e cioè, tra l’altro, se abbia un soprannome, quali siano le sue condizioni patrimoniali, familiari, sociali, se eserciti uffici o servizi pubblici o ricopra cariche pubbliche, e ancora se abbia già riportato condanne penali. Il Tribunale aveva, allora, chiesto alla Corte costituzionale se questa disciplina fosse compatibile con la dimensione costituzionale del cosiddetto diritto al silenzio, che è parte del diritto di difesa riconosciuto, tra l’altro, dall’art. 24 Cost., dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) e dall’art. 14 del Patto internazionale sui diritti civili e politici (PIDCP), adottato in seno alle Nazioni Unite.
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Con la sentenza n. 8268 del 22 marzo 2023, la Suprema Corte di Cassazione a Sezione Unite Civili veniva chiamata a pronunciarsi sulla questione dell’accertamento dei rapporti tra l’azione di disconoscimento della paternità (azione con cui si contesta lo status di figlio) e quella di dichiarazione giudiziale di paternità (azione che tende a conseguire lo status di figlio). In specie, ai sensi dell’art. 363 c.p.c., la Procura generale della Corte di Cassazione chiedeva l’enunciazione del seguente principio di diritto: «il giudizio di disconoscimento di paternità è pregiudiziale rispetto a quello in cui viene richiesto l’accertamento di altra paternità così che, nel caso della loro contemporanea pendenza, si applica l’istituto della sospensione per pregiudizialità ex art. 295 c.p.c.».
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Il lungo e quanto mai incerto percorso di adesione formale dell’Unione alla Cedu ha raggiunto recentemente una tappa significativa davvero non scontata. Il 17 marzo scorso è stato concluso un nuovo progetto di accordo grazie al quale l’ipotesi di un’adesione torna ad essere una prospettiva realistica[1].
L’art. 6, par. 2, TUE[2] stabilisce un vero e proprio obbligo a carico dell’Unione di procedere in questa direzione e, in infetti, un primo tentativo si era registrato già all’indomani dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona. Come si ricorderà, il negoziato protrattosi per circa tre anni aveva portato nel luglio del 2013 all’adozione del primo progetto di accordo di adesione. Quest’ultimo, sottoposto dalla Commissione al vaglio della Corte di giustizia, attraverso lo strumento previsto dall’art. 218, par. 11, TFUE, era stato dichiarato incompatibile con il diritto dell’Unione. Per il suo contenuto, il parere 2/13[3] ha costituito una battuta di arresto di portata tale da determinare l’abbandono del negoziato per circa sei anni, facendo addirittura dubitare della possibilità di realizzare l’adesione formale alla Cedu. La finalizzazione del nuovo progetto di accordo è dunque un risultato provvisorio ma di assoluta rilevanza nel quadro dei rapporti dell’Unione con la Convenzione.
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